Un simile repertorio Silvio Berlusconi non lo aveva mai adoperato, nemmeno nelle più iperboliche tournée anticomuniste. Beppe Grillo «è come Hitler, Stalin, Robespierre e Pol Pot», «è un assassino», se vince «ci saranno violenze, disordini inquietanti», vuole «una dittatura». A sentirgli dire enormità del genere, si direbbe che l’ex cavaliere si auguri che il comico finisca demolito dal voto popolare. La verità è opposta.

Berlusconi auspica invece che la somma vivente di tutti i dittatori della storia finisca la gara a una striminzita incollatura dal simpatico e democratico Matteo. Se attacca con tanta virulenza l’M5S è in parte perché sa che quel voto tenta una porzione congrua del suo smarrito elettorato, ma in parte anche maggiore è perché si prepara a chiedere l’ingresso a vele spiegate nella maggioranza e nel governo proprio in nome dell’emergenza democratica incarnata dal nazista a cinque stelle. Del resto, in un sistema politico non possono esserci due mostri, due anomalie che fanno a cazzotti con le fondamenta stessa della democrazia. Per due decenni quel ruolo è stato attribuito proprio a lui, Berlusconi Silvio, ma ora che la scomoda postazione è occupata dal ruggente comico, l’ex reprobo vede spalancarsi, proprio nel momento del declino, le porte della vera e sempre sfuggitagli legittimazione democratica.

Alla vigilia di un voto che più politico non si può, i pronostici per l’antico dominus della politica italiana restano infausti: checché ne racconti sul palco è lui il primo a saperlo. Se arriverà al 19% sarà già un successo insperato, peraltro molto poco probabile. Eppure domani notte non sarà solo il risultato della sua Fi che Berlusconi aspetterà con viva apprensione. Sarà altrettanto attento non all’esito del testa a testa tra Renzi e Grillo ma allo scarto tra i due. Sa che, se Renzi vincerà con quei 4 o 5 punti di vantaggio nei quali spera, il giorno dopo userà la minaccia delle elezioni anticipate come una mazza da baseball per mettere in riga la sua maggioranza conclamata e quella ombra, che comprende appunto il partito azzurro. Ma se invece finirà al fotofinish, la mazza si trasformerà in innocuo ramoscello e Renzi dovrà agitarlo come segnale di pace e amore per ottenere l’appoggio di una Forza Italia non più disposta ad accontentarsi di partecipare al processo riformatore e decisa a reclamare l’ingresso al governo. La parola d’ordine che risuona in questi giorni ad Arcore e nell’intero stato maggiore del partito azzurro (con la sensibile eccezione di Denis Verdini) è netta: «Mai più sulla porta». O dentro la maggioranza o fuori in tutti i sensi, perché non si può andare avanti pagando i costi della partecipazione strisciante a una maggioranza senza incassarne alcun dividendo.

Il secondo risultato che Berlusconi attende con trepidazione è quello dei «traditori» guidati dall’ex delfino. Se il risultato sarà buono, come sembrano accreditare i pronostici, tutto diventerà più difficile, perché sarà proprio Alfano a puntare i piedi per impedire al rivale di uscire dal vicolo cieco entrando al governo. Ma se le rosee previsioni si mostreranno errate, allora, secondo i calcoli degli strateghi di palazzo Grazioli, sarà lo stesso Angelino a dover insistere per accogliere i vecchi soci nella maggioranza.

La sola idea di un esito del genere è per Renzi un incubo. È proprio quello a cui mira, senza neppure nasconderlo, Grillo: da una parte tutti gli altri, il Pd, il Pdl, l’Ncd, in un ammucchiatona facilmente identificabile come «il sistema», dall’altra solo i suoi neogiacobini pentastellati. Se reclama il voto subito, col «consutellum», lo fa appunto perché sa che votare con quella legge renderebbe obbligatoria l’insana alleanza. Dunque Renzi farà il possibile per chiudere le porte in faccia al postulante di Arcore. Ma senza una vittoria netta domani sera, di strumenti per resistere gliene resteranno pochini. Forse nessuno.