Tira un’ariaccia pesa, di quelle che la tensione la senti a pelle, nel partito azzurro. Quando chiedi a una parlamentare di grossa caratura se Berlusconi, nel suo intervento all’assemblea congiunta di deputati e senatori, la ha convinta e quella si abbottona fino al collo, sibilando seccata: «Di queste cose io non parlo», il segnale è chiaro.

Il Cavaliere è andato giù durissimo, il cavaliere. «Ha messo la fiducia», sintetizza Paolo Romani, ed è proprio così. Il patto del Nazareno non si tocca. Neppure lo si discute. Le gioie della democrazia, il tapino, le ha già sperimentate nel primo tempo dell’assembleona, quando le mazzate contro la riforma di Matteo erano piovute giù a diluvio. Il pluriprocessato non ha nessunissima voglia di ripassarci, anche perché è palese che nel frattempo i malumori non sono diminuiti. Semmai aumentati. Dunque il capo iscrive a parlare un solo nome, il suo, e invece di provare a convincere passa senza esitazioni a ordinare e minacciare.

Le riforme, sintetizza, «dobbiamo votarle, anche perché Renzi ha la forza di approvarle da solo e se non ci stiamo diventiamo ininfluenti. Non sono quelle ideali per noi, ma sono le uniche possibili essendo minoranza». Poi, «grazie al capogruppo al Senato Romani il testo originale è molto migliorato». Nel complesso un discorso palesemente pronunciato con la mente rivolta all’Italicum molto più che al Senato. Conclusione: «Datemi fiducia come avete fatto per vent’anni e non vi ho mai deluso».

Fiducia vuol dire rispettare il patto del Nazareno senza un fiato, che «se si litiga negli spogliatoi poi gli elettori non ti premiano, come hanno dimostrato alle europee». Sin qui tutto come da copione. Meno prevedibile il passaggio a muso duro sulla possibilità di «deferire ai probiviri» i reprobi che dovessero respingere il cortese invito a votare come Arcore comanda: «Chi critica in pubblico il partito va deferito al collegio dei probiviri». Oddio, presidente, ma il collegio in questione è ancora vacante! Non importa: «Lo nominerò presto».

Capezzone resiste. Il capo lo rimbrotta: «Ho deciso così per il bene del partito e del Paese». E così s’ha da fare. Non si piega neppure Minzolini, ma si sa che per lui il Cavaliere ha un debole: «Falla finita pure tu, sennò ti caccio», scherza. Nessuna voglia di scherzare invece con il senatore Gal D’Anna: «Devi smetterla con le interviste critiche. Vattene da Alfano».
Il contentino è una dichiarazione di guerra sulla politica economica. Lì sì che l’opposizione sarà durissima, tanto che la supervisione della campagna è affidata al superfalco Brunetta. Non basta a tranquillizzare i ribelli, che quanto sia posticcia l’opposizione alla politica economica di Renzi lo verificano da mesi ogni giorno.

Dalle prime reazioni, infatti, non si direbbe che l’intemerata abbia raggiunto l’obiettivo. Le cheerleader di Silvio come Mariastella Gelmini non perdono un attimo: «Il presidente è sempre il migliore, avanti con le riforme», e anche una senatrice ben più autonoma come Anna Maria Bernini conferma: «Come sempre Berlusconi indica la via». Ma i toni opposti sono numerosi. Minzolini esce dalla sala e dichiara ineffabile: «Io il Senato non elettivo non lo voto». Anche D’Anna, il bastonatissimo, tiene duro: «Massimo rispetto per Berlusconi, ma non voto».

Soprattutto, i ribelli meditano addirittura una riunione autoconvocata per oggi. Che si tenga davvero è incerto. Ma lo stesso Minzolini, Cinzia Bonfrisco, e soprattutto l’area scontentissima di Raffaele Fitto ci pensano sul serio. Se l’assemblea autoconvocata si terrà davvero, avrà tutto il sapore di un ammutinamento. Non solo sulle riforme ma sull’intera strategia di appoggio esterno “travestito” allestita da Verdini.

Sulle riforme, però, l’eventuale resistenza dei dissidenti azzurri potrebbe avere effetti deflagranti. Ieri in aula i leghisti hanno mitragliato uno dopo l’altro la riforma, concludendo con l’annuncio di molti che il voto positivo non ci sarà senza l’accoglimento dei loro emendamenti, tra i quali figura la cancellazione dell’obbligo di pareggio del bilancio. Per la prima volta sono usciti allo scoperto anche i dissidenti dell’Ncd, con D’Alì che ha accusato il futuro Senato di rappresentare «Non i cittadini delle Regioni come dovrebbe, ma le amministrazioni regionali».

Non significa che il voto finale sia in dubbio, e anche il probabile mancato raggiungimento dei due terzi dei voti verrà depotenziato da un emendamento che renderà comunque obbligatorio il referendum confermativo.
Ma un fronte così ampio, con i dissidenti Pd, potrebbe rovesciare gli equilibri su emendamenti fondamentali: non solo il Senato elettivo ma proposte di cambiamento più insidiose. Come ad esempio una diminuzione anche del numero dei deputati. Se passasse, la camera lo correggerebbe, certo. Ma bisognerebbe davvero ripartire da zero.