Niente da fare. La fronda interna a Forza Italia sulle riforme si rivela più ostica del previsto e neppure le parole di un Berlusconi fresco di ribadita «profonda sintonia» con Renzi riesce a convincerla. Tanto che, dopo essere arrivati a un millimetro dal voto sul nodo cruciale, quello del senato elettivo, tutto viene rinviato di una settimana, nel secondo tempo della prima assemblea congiunta dei gruppi parlamentari forzisti in cui il sovrano deve vedersela con una vera opposizione interna.

Non era così che il Cavaliere pensava di giocare la partita. Nella sua relazione aveva detto forte e chiaro che dalle riforme non ci si poteva distanziare. Aveva ricordato che il ruolo degli azzurri resta decisivo, il che ne fa padri della nuova Patria a pari merito col giovinastro. Aveva ribadito che per le prossime elezioni dovrà essere in campo una coalizione di centrodestra con dentro proprio tutti, nessuno escluso. Il che è un modo indiretto per confermare la tesi che Verdini ripete da mesi: per Fi legge elettorale migliore dell’Italicum non c’è, e una defezione sulla riforma del senato costerebbe l’abbandono di quella legge da parte di Renzi.

Ma ci sono altre e meno confessabili ragioni dietro quello che moltissimi forzisti considerano un cedimento totale. Il capo non ne parla nell’intervento ma fa in modo che la voce circoli tra i capibastone. Nell’incontro della mattina, Renzi si sarebbe mostrato disponibile sul capitolo più spinoso, quello della riforma della giustizia. Il testo, avrebbe detto, non è blindato, si possono apportare (e concordare) emendamenti più che significativi. Ma non basta, perché chi ci ha parlato nelle ore tra l’incontro di palazzo Chigi e l’assembleona dice che la principale preoccupazione del proprietario di Mediaset, in questo momento, è la minaccia di un tetto pubblicitario che spezzerebbe le gambe all’azienda.

Non ci vuol molto a mettere insieme gli elogi sperticati rivolti da Piersilvio a Renzi, la resa quasi senza condizioni del papà al premier e concludere che in ballo non c’è tanto il Senato della Repubblica quanto l’azienda di famiglia.
Forse è per questo che Berlusconi ha fretta di parlare d’altro. Di soldi: quelli che mancano nei forzieri azzurri. «Dovete pagare le quote, e dovete farlo entro l’estate», tuona. Non è il modo migliore per rabbonire i parlamentari, che al portafogli hanno sinora messo mano raramente. «Siamo qui per parlare di riforme, non di bilancio», sbotta qualcuno. E di riforme infatti si parla, ma non col tono auspicato dal capo. Minzolini è il primo, gli altri vanno giù a valanga e vanno alla carica anche notabili di serie A come la senatrice Bonfrisco. Non la mandano a dire nemmeno i “fittiani” che anzi al Senato sono i più imbufaliti di tutti.

La maggior parte degli interventi, ancora una volta, è per il pollice verso. Tira un’ariaccia e il primo ad ad accorgersene è Denis Verdini, regista e massimo sostenitore del patto del Nazareno. Quando prende la parola fatica a trattenere l’ira, diventa paonazzo, porta la tensione all’apice.

A questo punto il capo decide di prendersi un’altra settimana, per «decidere» e poi sottoporre alla ratifica dei parlamentari la scelta. Sull’esito della riflessione non c’è in realtà alcun dubbio e il portavoce Toti lo spiega con parole tanto esplicite da rasentare la brutalità: «Berlusconi sa bene che l’accordo sulle riforme è frutto di una lunga mediazione. E resta convinto che il cammino delle riforme deve proseguire la sua strada».

Tra una settimana Berlusconi confermerà ancora una volta il patto con Renzi e la maggioranza dei forzisti voterà come lui vuole. Ma con questo clima non è affatto detto che la minoranza, al momento del voto in aula, si adegui.