Impedire a Renzi di andare al voto con l’Italicum alle prime difficoltà. Per Silvio Berlusconi la priorità è oggi questa. La traduzione materiale del ragionamento è affidata al capo dei senatori Romani: «Per Forza Italia il modello francese è inaccettabile».
Il ragionamento del capo forzista è lineare: le promesse di Renzi hanno già cominciato a infrangersi contro gli scogli della dura realtà. La doppietta monito europeo-bollettino di guerra Istat è in effetti micidiale. «Il governo vuole aumentare la platea di chi riceverà gli 80 euro, ma non hanno i soldi nemmeno per quella già prevista», commentano gli azzurri nei corridoi del Senato. «Dopo le raccomandazioni europee, quel decreto si rivolgerà come un boomerang contro famiglia e imprese», profetizza Anna Maria Bernini. La conclusione è ovvia: se avrà portato a termine la riforma di palazzo Madama e quella della legge elettorale, per tirarsi fuori dal vicolo cieco prima di veder affondare l’indice di gradimento Matteo Renzi non esiterà a rimangiarsi le promesse per imporre le elezioni anticipate. Bisogna impedirgli di realizzare quelle riforme a passo di carica.

Ma bisogna anche evitare che un partito già dilaniato dallo scontro con Raffaele Fitto si laceri ulteriormente arrivando ai ferri corti con Denis Verdini, che invece le riforme vuole portarle a casa e difende il patto del Nazareno con una veemenza seconda solo a quella del suo carissimo Matteo. Puntare subito i fucili sull’Italicum significherebbe rischiare lo scontro con il coriaceo Denis e con i senatori che sono pronti a rispondere a un suo eventuale appello al solito «senso di responsabilità». Dare battaglia sulla pasticciatissima riforma del Senato è molto più facile.
Tra gli emendamenti ufficiali del gruppo forzista, del resto, c’è anche quello sul presidenzialismo, che nelle intenzioni dei nemici giurati della riforma dovrebbe funzionare come testa d’ariete per abbattere anche l’Italicum. «Le proiezioni dimostrano che con il Consultellum avremmo molti più seggi anche con il 16%», taglia corto Augusto Minzolini, che sulle barricate contro la riforma del Senato ha raccolto 37 senatori.

Ma se per l’ex cavaliere, la partita importante è già tornata a essere quella nel campo largo dei rapporti con il governo, la grana Fitto è tutt’altro che risolta. Tra Berlusconi e il nuovo ribelle la pace sembra ogni giorno più lontana. Ieri il capo ha riunito a Roma il vertice forzista, da Verdini ai capigruppo, in una sorta di prosecuzione del tempestoso incontro della sera prima ad Arcore. Ma gli strepiti del capo («Ora basta. Non mi faccio mettere i piedi in testa da Fitto»), servono a poco. I fittiani crescono di numero ogni giorno, arruolano nomi pesanti come Mara Carfagna e Daniele Capezzone. Già si delineano i pasdaran della “corrente”, come Saverio Romano e Renata Polverini. Insistono per primarie «di partito», non di coalizione, con l’obiettivo di conquistare d’impeto le postazioni di potere nei vari territori per poi arrivare con lo scettro in pugno alla trattativa con le altre formazioni di centrodestra, a loro volta impegnate nel tentativo (difficile) di dar vita a gruppi parlamentari unificati Nc-Ucd-Popolari per riconquistare peso e contrattualità. Berlusconi, ancora ieri pomeriggio, ha ribadito di non volerne sapere. Ma già si affaccia un’altra potenziale tensione, perché nel caos del partito azzurro non manca chi pensa che al partito-nazione di Renzi non si possa rispondere con una coalizione, e vorrebbe sì la democrazia interna e le primarie, ma come strumento per dar vita a un partito unico, dal quale resterebbe fuori, come alleata esterna, solo la Lega.