All’indomani della mazzata della Consulta, sulle reali intenzioni di Berlusconi Silvio, il condannatissimo, girano voci opposte. I beninformati giurano che nel vertice notturno seguito alla sentenza il gran capo ha fatto fuoco e fiamme. Se l’è presa senza mezzi termini con Giorgio Napolitano, che avrebbe dovuto garantirgli lo scudo in Corte costituzionale, ma soprattutto con il governo, al quale, secondo la versione filtrata sino alle colonne web dell’Huffington Post, «non si concederà più nulla». Avviso di sfratto.

Chi a quel vertice delle ore piccole c’era, però, la racconta in maniera ben diversa. E’ tutt’un altro Silvio quello che emerge da queste cronache. Inviperito, certo. Amareggiato, deluso, più che mai convinto di dover fare i conti con agguati politici travestiti da sentenze, però calmo come un placido lago quando si arriva al capitolo tenuta del governo. Tranquillo, denti stretti e nervi sotto strettissimo controllo: il governo va avanti, nessun maremoto innescato da qualche sentenza lo sommergerà.

E’ la versione ufficiale. Quella che Berlusconi, a caldo, aveva consegnato a un commento tutto all’insegna del massimo equilibrio, e che Enrico Letta ha ieri ripreso alla lettera, non si sa quanto credendoci davvero: «La sentenza Mediaset non avrà ricadute sul governo».

Chi ha ragione, i cantori del Silvio furioso o quelli del Berlusconi pacato statista? Tutti e nessuno. La verità è che Berlusconi non ha ancora deciso quale sentiero imboccare. Per se stesso ha ritagliato il ruolo della colomba, e del resto non avrebbe potuto fare altrimenti. Però consente volentieri ai rapaci di volare in cerchi sempre più stretti, a partire dalla bellicosissima Michaela Biancofiore che esorta Letta a non dormire sonni tranquilli, invoca accelerazioni drastiche sulla riforma della giustizia (come del resto fa anche la supercolomba Gaetano Quagliariello) e medita su un possibile ricorso addirittura presso la Corte dei diritti e di giustizia europea.
Berlusconi non ha deciso, ma se lo farà, se si risolverà a rischiare il tutto per tutto, non userà certo come casus belli una sentenza. Su questo particolare, anche chi giura che il Berlusconi pacifista è quello vero non la manda a dire: «Se il governo rischierà non sarà sulla giustizia ma sull’economia, sui temi di sempre, Imu e Iva insomma». Che non è poi una versione molto diversa da quella dei duri: cos’altro starebbe a significare «non fare più sconti al governo» se non metterla giù durissima sull’economia? Questo deve decidere Berlusconi e questo a tutt’oggi non ha ancora deciso: se trasformare il braccio di ferro fiscale in occasione di crisi o se forzare sì ma solo fino a un certo punto, senza mettere a rischio il governo.

Solo in un caso il terremoto giudiziario inciderebbe direttamente sulle sorti del governo: qualora il Senato votasse a favore del ricorso sull’ineleggibilità di Berlusconi. «Le sentenze della magistratura – spiega una colomba pidiellina molto vicina al sommo – per noi sono un atto politico, però non agito da un soggetto direttamente politico. Per questo non comportano rischi diretti per il governo. Ma un voto al senato di un partito nostro alleato come il Pd sarebbe un altro paio di maniche».

I tempi sono stretti ma non strettissimi. Il 9 luglio la giunta inizierà a occuparsi dei vari eletti, ma non comincerà dalla regione che mette a rischio l’ex premier, il Molise. Partirà dalle regioni in cui non sono stati presentati ricorsi: per arrivare al nodo ci vorrà del tempo. Prima o poi, però, bisognerà arrivarci e a quel punto le cose potrebbero complicarsi. Con quattro potenziali dissidenti su otto piddini in giunta non è affatto certo che il ricorso non passi. Certo, il verdetto definitivo sarebbe quello dell’aula, dove la percentuale di dissidenti del Pd è molto più bassa. Però, dopo un parere della giunta a favore del ricorso, la bocciatura in aula da parte del Pd sarebbe ben più dolorosa e difficile. E non è neppure detto che il Pdl si accontenterebbe. «Su una materia come questa – prosegue infatti il pidiellino – non si può ammettere libertà di coscienza. Né in aula né in giunta. Il Partito democratico deve imporre la disicplina e il rispetto degli accordi nell’una e nell’altra».