Prima di decidersi a commentare le elezioni vinte, Berlusconi intinge il pennino nel curaro. Il suo comunicato è un no secco alle richieste avanzate nella notte da Matteo Salvini, da Giorgia Meloni e dall’ex delfino Giovanni Toti. Toni diversi, obiettivo identico: forzare la mano all’ex Cavaliere, costringerlo a rottamare la strategia del piede in due staffe, nella coalizione di destra ma anche nel miraggio di una futura grande coalizione con Renzi, obbligarlo ad abbracciare il «modello Toti» dimostratosi vincente. Sul fatto che tale si sia dimostrato nessuno può avanzare dubbi: conquistate Genova, La Spezia, Sesto, tutti i principali comuni dell’Emilia rossa, e molti in Toscana tra cui Pistoia, l’inespugnabile espugnata non da un moderato ma da un fratello d’Italia. E poi la bandiera piantata a L’Aquila, la sconfitta più cocente per il Pd, anche lì per mano di un fratello di Giorgia. Non c’è da stupirsi se il governatore della Liguria invita tutti a «seguire questa indicazione».

«No, grazie»: la risposta del capo, che ormai per molti è solo l’ex capo, è questa. Lui è felicissimo, certo. Sono risultati che «hanno un grande valore per il centrodestra», ma anche qui senza risparmiarsi la frecciata: «Nonostante siano stati espressi da un numero limitato di elettori». Segue elenco dei caratteri che il succitato centrodestra dovrà avere per vincere davvero. Dovrà essere «una coalizione tra forze politiche diverse, caratterizzata da un chiaro profilo liberale, moderato, basato su radici cristiane, secondo il modello di centro-destra vincente in tutt’Europa». Insomma dovrà essere una forza vicina al Ppe e lontana dai populismi, composta da elementi distinti e che quindi manterranno libertà d’azione, guidata dai partiti più moderati e con i descamisados modello Salvini alla traina, giacché i candidati dovranno brillare per «la serietà del linguaggio». In breve: l’opposto di quello che vorrebbero i presunti alleati e per non lasciare dubbi sulle mani che impugneranno il bastone del comando il sovrano deposto si accredita per intero il merito dello scintillante risultato. Ringrazia e si dice «pronto a farsi carico della responsabilità» che tanta fiducia comporta.

Risponde a stretto giro Giorgia Meloni: «La moderazione è una categoria che in politica non esiste più: non mi interessano le etichette». Più conciliante Salvini: «Ma io sono moderato e liberale. Poi sono parole che vogliono dire tante cose…». Toti, in privato, si dichiara soddisfatto: «Non ci sono chiusure vere e parla di coalizione». Più che magnanimità è la consapevolezza della propria forza, la certezza che alla fine l’ex Cavaliere si dovrà arrendere.

Non è questione di leadership, anche se un secondo dopo la chiusura delle urne forzisti e leghisti hanno cominciato a beccarsi con Giorgetti che rivendicava a Salvini il merito del successone e Brunetta lesto a ricordare che «è Fi, primo partito della coalizione, la forza trainante e Berlusconi è il federatore». Lo scontro un po’ sguaiato sul chi traina e chi è trainato maschera una divisione strategica. Berlusconi non ha intenzione di legare le proprie sorti solo a un centrodestra in cui il suo ruolo sarebbe inevitabilmente sminuito. Gli interessa di più l’altro tavolo, quello intorno al quale, come in un minuetto, lui e Renzi si avvicinano ogni giorno di più con il comune obiettivo di convolare a nozze dopo le elezioni. È quella la manovra che Salvini e Toti vogliono bloccare.

Salvini va giù pesante: «Gentiloni dovrebbe dimettersi. L’obiettivo è mandare a casa il governo. Il Parlamento è delegittimato». Sono parole rivolte proprio a Berlusconi, accusato di aver fatto nelle ultime settimane da puntello al governo e di prepararsi a farlo in forma anche più estrema con la legge di bilancio. Il leghista, poi, si mette in mezzo anche sul fronte che per l’amico/nemico di Arcore è il più prezioso di tutti, quello della legge elettorale. Il comunicato al vetriolo di ieri, infatti, non deve trarre in inganno. Berlusconi sa che gli sarà difficile resistere, non a Salvini o a Toti, che pure non esclude la scissione, ma agli elettori di centrodestra, che hanno dimostrato di volere proprio l’unità blindata. Sa che la sola via d’uscita sicura sarebbe quella legge elettorale proporzionale in coma dopo il voto di Montecitorio ma che lui e Renzi hanno da allora pensato spesso e operativamente di resuscitare. Ed ecco che Salvini, il terzo socio di quell’accordo, rovescia il tavolo. Ora vuole una legge maggioritaria con tanto di coalizioni premiate: «Se c’è la volontà si fa in cinque giorni. Noi siamo pronti». E nel comando azzurro molti profetizzano che, se l’operazione «tedesca» fallirà, Berlusconi finirà per accettare proprio questo modello.

Quello tra Silvio il Moderato e Matteo lo Spaccamontagne non è il solo conflitto che lacera i vincitori. I centristi di Ap scalpitano per tornare a casa. Salvini ha già messo il veto: «Mai con Alfano». C’è il caso che almeno in questo lui e Berlusconi concordino. In due ore di trasmissione, domenica sera, Brunetta ha dato a Lupi del «traditore» una decina di volte.