Il patto del Nazareno non c’è più. Anzi c’è ancora, però solo per quanto riguarda «la fine del bicameralismo e degli indennizzi per i componenti del senato». Non per quanto riguarda l’elettività dei senatori, cioè il vero nodo della discordia. Però, Fi «è pronta a discutere ogni dettaglio». Dimesso di fresco dall’ospedale, Berlusconi si collega al telefono con una manifestazione di Fi a Milano e va giù più duro di come non potrebbe: «Così com’è la riforma del Senato è assolutamente inaccettabile e indigeribile. O facciamo una buona riforma o tanto vale chiudere del tutto il Senato». Non si ferma qui: «L’elezione diretta del presidente della Repubblica deve essere la prima riforma, senza la quale non si possono fare tutte le altre». Tra le quali, va da sé, primeggia quella della giustizia, perché «siamo soggetti a una vera dittatura giudiziaria». Cos’altro è il processo Mediaset se non «un disegno» tessuto per tenerlo lontano dalle tv e «permettere al Pd di chiedere la decadenza»?

È campagna elettorale, certo. Le mazzate contro l’euro si spiegano proprio con la necessità di brandire parole d’ordine forti: «Per restare nell’euro è obbligatorio che si cambino le misure della Bce. Dobbiamo rigovernare tutti i trattati firmati in ginocchio davanti alla Germania». Il grande imbonitore non nasconde le difficoltà, ma ne rovescia il segno: «I sondaggi ci danno al 21,6%? E’ un miracolo, visto che Renzi sta in tv 4 o 5 ore al giorno e io manco dal video da mesi. Ma sto per tornare in tv e quando ci saranno le politiche, tra un anno e pochi mesi, le vinceremo noi».
È campagna elettorale, ma non solo. Appena poche ore prima, in mattinata, uno scambio di battute «fuori onda» tra Gelmini e Toti aveva chiarito alla perfezione il vicolo cieco in cui si dibatte il capo: «Ha capito che ’sto abbraccio mortale con Renzi ci sta distruggendo ma non sa come sganciarsi». Per il resto, Totti sembrava descrivere un Berlusconi preoccupatissimo per la sentenza del 10 aprile, tanto acciaccato dai guai e dall’età da non reggersi nemmeno in piedi, con quel ginocchio ballerino. Un quadro desolato e crepuscolare, nel quale si stagliava la figura di un leader ormai incapace di reagire e provare a fermare il declino.

Ma in due decenni tutti dovrebbero aver capito che i guizzi di Berlusconi non sono mai tanto temibili come quando si trova davvero con le spalle al muro, e mai ci si è trovato come stavolta. L’accordo con Renzi si è rivelato una trappola mortale. «Il filoberlusconismo di Renzi è peggio dell’antiberlusconismo», sintetizza Romani per una volta efficace. L’unica è stracciare quel patto, però senza passare per conservatori e facendone pagare i prezzi a Renzi. Di qui il comunicato con cui il «ruggente», a sera, corregge la rotta, confermando il patto del Nazareno ma insistendo per modificare il progetto di Renzi negli elementi centrali: l’elettività e il ruolo di sindaci. Berlusconi non può accettare un accordo che lo releghi nell’ingrata parte del portatore d’acqua al mulino di Renzi. Deve rivedere l’accordo con ruolo da protagonista, modificando quindi il ddl in alcuni dei suoi nodi fondamentali, oppure sottrarsi, ma senza assumersi la responsabilità della rottura.

Quanto la levata di scudi abbia comunque colto di sorpresa i renziani è reso evidente dalle frasi impacciate con cui hanno reagito. «Il Pd non intende entrare nelle beghe interne di Fi», afferma il vice di Renzi, Lorenzo Guerini, fingendo di credere che all’interno di Fi Berlusconi sia una specie di capocorrente tra gli altri, e magari palesando il sogno di una nuova scissione, stavolta col toscanaccio Verdini a fare quello che Alfano fece con Letta. Forse non a caso, tra le tante dichiarazioni di dirigenti forzisti che tripudiano, manca proprio quella di Denis il Duro. Guerini prosegue con l’immancabile manifestazione di ottimismo: «Siamo convinti che sul senato l’accordo tenga, pacta sunt servanda». Trascurando il particolare per cui il primo a violare quel patto è stato Renzi.

Se Berlusconi non cambierà idea, tentare di approvare la riforma prima delle elezioni europee sarebbe per Renzi un azzardo. Se anche quella di ieri fosse davvero solo campagna elettorale, come i dirigenti del Pd ritengono, a maggior ragione Berlusconi non potrebbe rimangiarsi la rottura prima del 25 maggio. Senza di lui, il sì del Senato è molto improbabile. «Ci sono 45 firme del Pd contro la riforma», gongola Brunetta. Forse esagera, ma non di molto.