Il recente incontro tra Napolitano e Berlusconi non ha suscitato, come indicatore, particolari riflessioni. Quasi tutti i commentatori si sono limitati, nella migliore delle ipotesi, a sollevare qualche distinguo sul momento dell’incontro, ad esercitarsi su qualche variazione relativa alla sua contingente opportunità. Si è considerato del tutto naturale, insomma, che il Presidente della Repubblica discutesse con il capo dell’opposizione (?) il punto centrale dell’attuale momento politico: il destino di quelle che la neolingua chiama «riforme» e che sono l’obiettivo principe di Napolitano. Inoltre l’altro Presidente, quello del consiglio, ha fatto della «profonda sintonia» con Berlusconi a proposito della suddette «riforme», uno dei cardini portanti della sua navigazione politica. Per la proprietà transitiva la «profonda sintonia» si estende ad ambedue i presidenti.

Questo stesso giornale, che esprime, peraltro, un’opposizione radicale al controriformismo da lungo tempo in atto, ha messo opportunamente in luce «l’imbarazzante, stupefacente atto politico» del «clamoroso faccia a faccia» e l’ha collegato, com’è del tutto evidente, ad una «posta in gioco molto alta», circoscrivendo l’analisi al fatto in sé (Norma Rangeri, Il colle spregiudicato, 2 aprile 2014).
Se proviamo a ragionare su tempi più lunghi rispetto alla pur gravissima contingenza, possiamo valutare meglio la profondità dei guasti nel nostro connettivo civile e politico.

Alcune settimane fa il deputato Brunetta ha redarguito vivacemente la presidente della Camera per non aver espresso riprovazione nei confronti del deputato Di Battista che avrebbe offeso gravemente Silvio Berlusconi usando nei suoi confronti il termine «delinquente». La presidente Boldrini riconosce fondata l’osservazione di Brunetta, e sia pure in ritardo, richiama Di Battista per avere usato un «linguaggio offensivo». Di che cosa è «spia» la ritrosia ad usare il linguaggio della verità nei confronti del «capo dell’opposizione»?
Tutti i dizionari della lingua italiana sono concordi nel definire «delinquente» una persona che ha commesso un fatto previsto dalla legge come delitto. Nel nostro caso, poi, un delitto di particolare gravità, che ha come soggetto uno dei massimi servitori dello Stato.
La definizione dei dizionari, necessariamente alquanto sintetica, non riesce a dar conto del complesso di dottrine giuridiche a cui si ispira il quadro legislativo più recente. In tale contesto, infatti, il reato non viene considerato solo nell’ambito di un sistema di norme giuridiche astratto ed esterno al delitto, bensì nell’unità sistematica della vita del delinquente. Una prospettiva in cui il termine assume più ampio spessore e rilevanza. Una prospettiva che rende difficile l’espediente dell’uso del termine «delinquente» in «senso tecnico», come hanno suggerito molti parlamentari del Pd.

Un’analisi minimamente accurata della lunga e gravosa vicenda giudiziaria di Berlusconi, tra condanne in primo grado, avvenute prescrizioni, leggi ad personam, procedimenti ancora aperti, fa emergere una realtà in cui l’«unità sistematica della vita del delinquente» si staglia nelle sue molteplici sfaccettature. L’«unità sistematica della vita del delinquente», dunque, si articola nel contesto di un sistema di relazioni.

I giornali dei giorni scorsi riferiscono che soltanto Cesare Previti e Marcello Dell’Utri possono attraversare senza problemi il cordone protettivo costruito intorno ai dolori del giovane-vecchio Berlusconi.

Proviamoci a ricapitolare: Cesare Previti è stato condannato in via definitiva per aver corrotto magistrati con i soldi di Berlusconi in favore di Berlusconi. Marcello Dell’Utri, latitante appena raggiunto da mandato di cattura, è stato condannato in secondo grado come intermediario tra mafia e Berlusconi. Berlusconi, Previti Dell’Utri, delinquenti in senso proprio e non in senso tecnico, sono stati i promotori della vicenda politica di Forza Italia.

Nella storia dell’Italia repubblicana anche i gangli centrali della vita politica nazionale non sono stati sempre immuni da contaminazioni con sfere della criminalità organizzata. È la prima volta, però, che un’operazione il cui esito sarà la gestione del potere dello Stato per lunghi anni, il condizionamento della vita pubblica ad ogni livello fino ad oggi, si manifesta così intrinseca con un’operazione criminale.

Eppure un fenomeno di tale mostruosità, un indicatore la cui rilevanza è essenziale per qualsiasi riflessione seria relativa a questa lunga contemporaneità italiana, è presente solo come elemento di superficie nella babele massmediologica e nel confronto politico. Indagarne le ragioni è, per uno studioso di storia, problema appassionante e stimolante. L’ampio spettro delle domande da porsi, i problemi metodologici di un’indagine di tal genere, sono il sale della professione. Osservarne gli effetti da cittadino consapevole suscita, invece, uno sguardo esterrefatto su tanto orrore politico/morale.

Tra i molti elementi di un insieme così informe, articolato su piani diversi che si intrecciano, proviamo ad indicarne uno: quello del «pensiero unico» della politica, in questo caso distinto da quello dell’economia anche se collegatovi strutturalmente.
Un «pensiero unico» che riserva alla politica uno spazio molto più limitato rispetto alle ambizioni dei mutamenti profondi economici e sociali che hanno innervato tale dimensione per un periodo storico molto lungo. Una limitazione di rilevanza, una riduzione a manovra spregiudicata il cui obiettivo è un potere esercitato in favore di un gruppo, di una corporazione, o addirittura di una persona. Nel migliore dei casi come pura gestione dell’esistente. Nel contempo la «autonomia del politico» viene declinata come separazione rispetto alle altre sfere della vita pubblica. Anzi ,se non proprio teorizzata, tale separatezza viene praticata in termini «assolutistici». La sfera politica, insomma, si ritiene «sciolta» dai legami con le altre sfere costituzionali.

Naturalmente Presidenti e delinquenti non interpretano esattamente nella stessa maniera la condizione di assolutismo. Per i delinquenti, l’esponente politico eletto è immune rispetto alla giurisdizione. Chi ha ricevuto i voti dagli elettori non può essere giudicato da chi ha vinto un concorso statale. Per i Presidenti invece, può, anzi deve essere giudicato, e le sentenze vanno rispettate. Solo che non hanno alcuna incidenza sulla manovra politica. «È un problema tra Berlusconi e la magistratura», ha detto con chiarezza un deputato renziano quando si è posta la questione della candidatura del delinquente alle elezioni europee. Insomma: la magistratura faccia il suo mestiere che noi politici facciamo il nostro in assoluta separatezza.

Il presidente giovane si è formato in questo clima di «pensiero unico» della politica. Aveva perfettamente ragione ad ironizzare sull’ipocrisia di chi criticava l’incontro del Nazareno dopo aver praticato per lunghi anni il gioco degli incontri incrociati. Il presidente vecchio, invece, è stato uno di coloro che alla costruzione di questa casa della politica ha portato un contributo non irrilevante.
Proprio sulla concezione della politica, infatti, Napolitano è stato il più deciso ed irriducibile avversario di Enrico Berlinguer.

Austerità (antitetica all’uso del tutto ideologico del termine nell’attuale congiuntura), questione morale, questione economico-sociale sono l’insieme strutturale con cui deve misurarsi la politica. La sola dimensione in cui trova senso quella politica che ha come stella polare l’emancipazione dei subalterni. Una concezione della politica nella quale non si separano i valori, i comportamenti, le relazioni e le qualità del carattere umano dalle forze storiche e sociali che danno loro forma. Qui sta il nocciolo della «diversità», un nocciolo tutto politico, per niente antropologico.

Ebbene Napolitano ha combattuto duramente questa concezione della politica quando era dirigente del Pci e l’ha definita «armamentario ideologico del passato» (indicativa la scelta del termine «armamentario») in sede memorialistica. (Dal Pci al socialismo europeo, 2006)

Ora la collaborazione di Berlusconi viene ritenuta necessaria al percorso delle «riforme» tracciato dai Presidenti in «sintonia» col delinquente. Per collaborarvi quest’ultimo ha chiesto l’«agibilità politica». Sembra che, di fatto, la stia ottenendo.
Naturalmente i Presidenti non c’entrano niente nel favorire il percorso che sta portando alla suddetta soluzione gradita al delinquente (e ai Presidenti).

Per capire meglio i meccanismi e gli arcani intrecciati con tali esiti, l’«armamentario» della concezione politica di Berlinguer è del tutto inutile. Utilissima invece la sistematica di Giulio Andreotti.