Una volta le scissioni nei partiti erano sinonimo di crisi, di indebolimento. Nella politica postmoderna dell’era berlusconiana non è più così. Scissione significa moltiplicazione: di uno se ne fanno due, uniti dalla venerazione del capo carismatico, affezionati a lui come figli, pronti a difendere fino all’ultimo la sua impunità, fedeli alla narrazione della persecuzione giudiziaria, ancorati al mito della grande speranza liberale di là da venire. Non importa che poi si deridano, si insultino, che gli uni chiamino gli altri traditori, teste di rapa, stalinisti.

Il partito dell’amore è ora due partiti dell’amore pieni di odio ma prossimi alleati, concordi nei fini. A quanto pare questi due partiti procederanno assieme, gli uni al governo gli altri all’opposizione, gli uni a presidiare dall’interno le richieste che gli altri avanzeranno dall’esterno. Come un caleidoscopio, la destra si scompone e si ricompone ma non si ridimensiona.

Da vent’anni viviamo la politica surreale. Assistiamo a sceneggiate, barzellette, agguati logici, voltafaccia, beffe, smentite, pernacchie. C’è sempre qualcosa di più, qualcosa di superiormente improbabile che si realizza. Potevamo immaginare che la condanna passata in giudicato per frode fiscale dell’uomo di Arcore fosse la premessa per un rafforzamento ulteriore della sua forza attrattiva? Potevamo pensare che la sua decadenza fisica, i suoi piccoli malori, fossero un motivo in più della sua fama di forza invincibile? Potevamo prevedere il funambolismo di un capo che smentisce se stesso annunciando la fiducia a un governo che ha appena sfiduciato? Potevamo supporre che il partito delle miti colombe comprendesse personaggi come Giovanardi e Formigoni? Potevamo dubitare che le frasi sulla consonanza del perseguitato brianzolo con le vittime della shoah fossero convertite in una nuova amicizia con Riccardo Pacifici a un tavolo di ristorante presente la fidanzata Pascale, col conforto di altre barzellette, cancellando le frasi ineleganti dal libro che esiste prima di essere pubblicato? Potevamo e non potevamo. Abbiamo fatto fatica ad adattare la nostra mente a queste fantasie da teatro dell’assurdo.

Nel frattempo l’Italia si è rivelata un paese tremendamente di destra, dove la breve stagione del qualunquismo di Giannini è diventata Era ventennale, dove loschi figuri come il nazileghista Borghezio si aggirano sulla scena con aria spavalda.
L’Italia paese di tutte le destre variamente modulate, dove le cose buone e giuste sono spaventosamente schiacciate, ci sono ma non si vedono, non contano, non si conoscono, sono separate, indicibili, ignorate, derise. La rappresentazione della politica italiana in era post-ideologica e post-guerra fredda ha manifestato una prepotente vocazione a portare a galla tutto il sentimento antisolidaristico, individualistico, antistatuale, antilegalitario che aveva represso nei decenni precedenti.

Abbiamo saputo che col denaro si può comprare tutto: la giovinezza, il potere, la politica, la felicità, la legalità. Le aragoste e i senatori. E’ stato proprio così. Abbiamo anticipato e dilatato le peggiori tendenze della demagogia populista europea. Abbiamo prodotto la più ignobile e sfrontata delle classi dirigenti.
Queste due destre principali derivanti dal tronco berlusconiano mai reciso punteranno a rimpolpare e a riunire due opzioni, apparentemente diverse ma appunto non antagoniste: quella dell’insulto e dell’aggressività, dell’invasione del palazzo di giustizia, del “me ne frego”, del parlamento bivacco dei manipoli, dei ricchi sfrontati, e quella dei moderati in famiglia e in chiesa, delle buone maniere e della proprietà al sicuro, dei poveri che vanno aiutati purché siano obbedienti, quella di Camillo Ruini che infatti pare abbia lavorato anche lui – così si dice – per questo nuovo assetto. Ormai dobbiamo ammetterlo. Berlusconi aveva ragione: l’anticomunismo è sempre attuale, è sempre vero. Perciò Berlusconi non può essere congedato, ma solo moltiplicato.