Il condannato più eccellente rientra alla Camera per presentare la sua battaglia, che per ora è solo di bandiera ma potrebbe diventare ben più concreta: quella per il presidenzialismo. Per raggiungere l’obiettivo, spiega l’ospite di Montecitorio, la strategia è tripla. La via più celere sarebbe «l’accoglimento dei nostri emendamenti alla riforma in discussione». In caso contrario, Fi avanzerà a breve una sua proposta di legge costituzionale e raccoglierà le firme per dimostrare che l’elezione diretta del capo del governo gode di ampio consenso popolare. Già che ci si trova, il cavaliere lancia una frecciata contro Napolitano: «E’ passato al di là della funzione prevista dalla Costituzione e ciò è diventato patologico». Ma si tratta più di mettere in campo un argomento a sostegno della proposta che di un attacco strategico rivolto al presidente.

In realtà il socio del Nazareno sa che in questo momento Renzi non vuole e non può mettere altra carne sullo spiedo delle riforme, pena una dilatazione eterna dei tempi di approvazione. Quando nel pomeriggio arriva il niet del premier, non si stupisce né si irrita. Lui stesso, del resto, quando gli chiedono se consideri il presidenzialismo condizione imprescindibile per confermare l’accordo del Nazareno sgrana gli occhi. Ma quando mai! «Noi rispettiamo i patti». La modifica della forma di governo, per ora, è solo un modo per non farsi sbalzare al margine della scena, ma Berlusconi ritiene che le cose cambieranno presto, tantopiù che in linea di principio «Renzi non si è detto contrario».

Berlusconi fa anche capire che sul Senato non ha intenzione di rompere e che l’accordo è vicinissimo: «Mancano alcuni punti. Si dovranno incontrare la ministra Boschi e il capogruppo Romani e se non troveranno un’intesa ci vedremo di nuovo io e Matteo Renzi». Soprattutto, dice chiaro e tondo che sull’elezione diretta dei senatori lui ha già mollato. Non c’è né ci sarà.

In realtà, mentre parla, il nuovo accordo è già fatto, ed è a tre, non più a due. Lo hanno concluso lunedì Anna Finocchiaro, Paolo Romani e il leghista Roberto Calderoli. Si basa su una ventina di articoli che modificheranno il testo base nella direzione richiesta da Fi: il grosso dei senatori verrà “eletto” dalle Regioni e i sindaci in aggiunta saranno un drappello. Un terzo nella versione originale, che però agli azzurri sembrano ancora troppi e si riducono quindi a un quarto. L’affare è fatto e la controprova arriva al momento di discutere nella Giunta per il regolamento il ricorso dell’ex ministro Mauro. L’ordine di scuderia per i tre forzisti è di evitare che il ricorso passi, e infatti né loro né Calderoli intervengono, prima del rinvio.

A spingere Silvio Berlusconi verso una sostanziale resa sono stati essenzialmente due fattori. Il primo è l’entrata in campo a gamba tesa della Lega, che ha modificato i rapporti di forza a palazzo Madama a favore di Renzi. Il secondo è l’approssimarsi dell’appello nel processo Ruby, domani a Milano. L’udienza potrebbe concludersi addirittura in un solo giorno e la condanna è probabilissima. Già una volta il condannato ha cercato di salvarsi rovesciando il tavolo e non gli è andata bene. Stavolta Denis Verdini ha avuto gioco facile nel convincerlo che il riparo più sicuro è difendere l’accordo con Matteo Renzi.