Erst kommt das Essen, dann kommt die Moral, recitava un tagliente verso di Berthold Brecht, «Prima viene il mangiare, poi viene la morale». Certo, Brecht scriveva nella disastrata Germania tra le due guerre, dove la fame non era certo una metafora e le cose andarono a finire piuttosto male. Eppure anche oggi gli instancabili retori della “questione morale” e i commentatori che lamentano lo scarso successo di pubblico dei cosiddetti “temi etici” dovrebbero tenere a mente questo antico insegnamento del “materialismo volgare”.
L’Istat ci ha appena informati che in Italia ci sono quasi dieci milioni di poveri (quasi 4 assoluti) e chissà quanti milioni che temono di diventarlo molto presto. L’Agenzia delle entrate ci ha fatto sapere che l’80 per cento dell’evasione negli ultimi 10 anni riguarda cifre dovute superiori ai 500.000 euro. Non è una questione morale, è una questione politica. I numeri della disoccupazione sono sotto gli occhi di tutti, così come la crisi incombente degli ammortizzatori sociali e le condizioni di vita e di lavoro di chi si arrabatta poco al di sopra della linea della povertà. La “ripresa” è una spudorata chimera a geometria variabile e lo sciagurato dispositivo di sfruttamento dell’Expo milanese rischia di fare da nuovo modello ai rapporti di lavoro.

Questa è “la realtà rimossa”, ben più grave della rimozione, denunciata da Massimo Recalcati in un articolo su la Repubblica, delle malefatte di Berlusconi o di quella miscela di servilismo, arroganza e cialtroneria che ha generato il cosiddetto scandalo kazako, in nome della salvaguardia delle larghe intese. Rimozione tanto più grave, quella della nostra miseria, perché non riguarda solo la pretenziosa autoconservazione di un governo blindato, ma la rassegnazione, l’indifferenza o il senso di impotenza che si sono ampiamente diffusi tra i governati.
E’ in questa triste stagnazione ribattezzata “stabilità”, che illustri commentatori invitano a non abbassare la guardia dell’ antiberlusconismo, a tenere alta la bandiera della “questione morale” fagocitata dall’ alleanza contro natura tra Pd e Pdl. La «bolla della pacificazione» la chiama sempre Recalcati. Come è possibile ingoiare quotidianamente rospi e ricatti, sacrificare differenze e principi? Come possiamo trovare un accordo sulle tante cose che ci dividono da una destra che non riesce a essere né presentabile né normale? Come sia possibile ce lo dimostrano inequivocabilmente i fatti. Ma ciò che dovrebbe preoccupare non sono le differenze costrette a stare insieme da Napolitano e dalla sua idea della ragion di Stato, ma le somiglianze e le condivisioni che insieme governano volentieri. Qualche esempio? Il programma di acquisto degli F35, solo ridimensionato. La caparbia fissazione sull’alta velocità in Val di Susa, contro la volontà dei cittadini e contro ogni ragionevole rapporto costi\benefici. Ma le consonanze non mancano neanche sui temi di fondo: dalla riforma del welfare, al lavoro, dalle privatizzazioni all’istruzione dove, da più di trent’anni, disastrosi riformatori di destra e (soprattutto) di sinistra si passano cortesemente la palla.
Combattere le somiglianze, prendere di petto i punti di accordo e i terreni condivisi, sarebbe decisamente più utile che rimarcare le differenze. La “differenza morale” laddove esistesse davvero lascerebbe infatti nell’ombra tutte queste consonanze e non sfiorerebbe neanche lontanamente una idea di società che, così come la compagine che la governa, “non ha alternative”. Tant’è che sulla moralità dei cacciabombardieri e dei loro costi le larghe intese non hanno avuto nulla da ridire. Il colore viola è decisamente sbiadito e non c’è da stupirsi se quelli che sognavano Berlusconi dietro le sbarre, sventolando la Costituzione e riempiendo le piazze oggi sognino più sensatamente un reddito, un’abitazione, un po’ di libertà di scegliere il proprio presente. Salvo quelli passati con Grillo che sognano di riaprire le carceri di Pianosa e dell’Asinara. Ma malauguratamente le piazze sono andate svuotandosi perfino ad Atene. E non saranno le sentenze giudiziarie o le figuracce internazionali a riempirle nuovamente. Le larghe intese non sono indigeribili per i compromessi, le omissioni o “rimozioni”, pur repellenti, che ne garantiscono l’equilibrio, ma per le politiche condivise che piegano la vita individuale e collettiva a interessi oligarchici e corporativi. Detto altrimenti: Berlusconi non è il nostro problema, è il loro alibi.