Il presidente del gruppo del Pd in senato insiste con coerenza: Berlusconi è ineleggibile. Precisa tuttavia che la sua è una posizione personale e lascia libertà di voto ai democratici della giunta delle elezioni, il cui voto sarà decisivo per stabilire se la ventennale vicenda approderà finalmente al pubblico e scomodo dibattito di un’aula parlamentare. Infatti, il vetusto regolamento della giunta prevede che con il voto della maggioranza dei suoi componenti la questione possa essere archiviata, con una discussione e votazione destinate a rimanere segrete.

Questo è già accaduto in tutte le precedenti occasioni in cui la camera (il regolamento è analogo a quello del senato) si è occupata della eleggibilità di Berlusconi, che è stata sempre decisa nelle fasi preliminari e segrete del procedimento davanti alla Giunta.
Alla prima di queste occasioni, nel lontano luglio del ’94, ho avuto modo di partecipare, votando per la ineleggibilità sulla base di argomentazioni giuridiche che mi sembravano (e mi sembrano) inoppugnabili. Ma la mia posizione rimase isolata; è prevalsa un’idea di democrazia, tuttora in voga anche a sinistra, che ne riduce l’essenza a mero consenso elettorale, privandola di un altro dei suoi essenziali fondamenti, che è il rispetto delle regole.

Di recente ho chiesto di poter visionare i verbali di quella seduta, per ricostruirne l’andamento con più attendibilità di quanto consentano i ricordi personali. Ma la presidenza della camera, regolamento alla mano, mi ha negato l’accesso, anche con riguardo al mio stesso intervento. Con tutto il rispetto, la inespugnabilità degli interna corporis assume in questi casi connotati francamente grotteschi. Con la elezione di Boldrini e Grasso era legittimo sperare che questi arcaismi regolamentari sarebbero stati spazzati via.

È vero che allora si parlava di «cambiamento» e ora invece abbiamo il governo delle larghe intese. Ma è anche vero che nella relazione dei saggi di nomina presidenziale, Valerio Onida, pur contrario alla ineleggibilità di Berlusconi, propone di cambiare l’articolo 66 della Costituzione, per togliere alle camere e demandare a un giudice indipendente (la Corte costituzionale) la verifica della eleggibilità dei parlamentari. In attesa dei lunghi tempi della riforma, si potrebbero almeno cambiare i regolamenti, in modo da rendere trasparente e pubblica la discussione sui titoli di legittimazione dei rappresentanti del popolo a sedere sugli scranni parlamentari.

Tuttavia l’esigenza di pacificazione che sorregge il governo delle larghe intese – che sarebbe gravemente disturbata dalla discussione in aula sulla ineleggibilità di Berlusconi – non induce all’ottimismo. Se la questione dovesse arrivare nell’aula del senato, quale direttiva di voto darebbe al suo gruppo il presidente Zanda? Lascerebbe il voto alla «libertà di coscienza» dei senatori? Non sarebbe un bel vedere se anche questa volta il gruppo dei democratici si spaccasse, nel corso della discussione o, ripetendo recenti esperienze, nel segreto dell’urna. Meglio allora che la questione rimanga confinata nelle procedure discrete della giunta e si chiuda con una archiviazione. Basterebbe, come già accaduto in passato, che qualcuno dei rappresentanti del Pd dia una mano ai colleghi del Pdl.

Senza dire che una grossa mano – sui tempi di discussione e sulla nomina del relatore, titolare del potere di proposta – potrebbe darla la presidenza della giunta, assegnata pacificamente al rappresentante della Lega, in assenza di una rivendicazione da parte di Sel e M5S, che pure avevano i titoli per rivendicarla.