Colpita due settimane fa nel primo turno elettorale, l’immagine di un Pdl in salute contro il quale il Pd avrebbe tutto da perdere in caso di ritorno anticipato alle elezioni politiche va in frantumi in un pomeriggio solo. L’epicentro è naturalmente Roma, ma le conseguenze del disamore dell’elettorato di centrodestra, rimasto in buona parte a casa, fanno tremare tutto lo stivale, da Treviso ad Avellino. Il nervosismo si impossessa di Alfano, segretario parafulmine del partito berlusconiano e capo delegazione nel governo delle larghe intese. Nel giorno del tracollo il delfino espiatorio del cavaliere fa due cose. Prima coopta nel suo ministero Isabella Rauti, moglie di Alemanno, gesto in fondo molto alemanniano per tentare di tenere assieme i cocci e frenare la tentazione del sindaco sconfitto di mettersi alla testa di una scissione degli ex An dal Pdl. Poi Alfano prende coraggio e consegna al Foglio di Ferrara un attacco diretto al presidente del Consiglio di cui è vice. La colpa di Letta secondo Alfano sarebbe quella di «ripetere il tema del governo di necessità come una giaculatoria politica». Insomma, troppo poco entusiasmo, «il governo appare senza una sua missione autonoma», si lamenta Alfano, che pure a questo punto non ha molte sponde fuori dal governo. E allora aggiunge: «Roma è Roma, ed è su questo che si è votato. La vita continua e il governo vive oltre le battaglie parziali. Ma- riconosce – senza la stampigliatura personale di Silvio Berlusconi» per il Pdl sono guai.

In fondo cantare «che disgrazia quando Silvio non c’è» è la stessa, semplice analisi che i sostenitori del ritorno alle origini del berlusconismo puro ripetono in mille dichiarazioni di lutto. Si distinguono Bondi, Gelmini e Santanchè, mentre i più coinvolti nella sciagura romana rinculano verso spiegazioni livorose: «Era una sconfitta prevedibile», dice adesso Gasparri.

Berlusconi evita commenti ufficiali. Così come aveva evitato di presentarsi a Roma per non firmare la debacle di Alemanno. L’indecisione lo consuma e il velo dei sondaggi che lo darebbero sempre trionfante si strappa, se non si squarcia. Di certo però trova conferma della tesi che solo lui può condurre alla vittoria il centrodestra. E dunque tornerà ad ascoltare con più attenzione quelli che si chiamano i «falchi» del Pdl, quelli che nelle larghe intese ci stanno strettissimi. Verdini, innanzitutti. È improbabile però che di fronte al rischio di un partito che non mobilita più i suoi elettori il Cavaliere possa essere indotto a precipitare il governo in una crisi autunnale. Riprenderanno piuttosto le offensive sull’Imu e sull’Iva, sulle manovre choc e sul resto del fantasioso campionario della berlusconomics. Nell’attesa che entro fine mese si chiarisca il destino giudiziario del principale, le cui ricadute sulla maggioranza non si faranno attendere. Ma esclusa la crisi, quelle che restano al Cavaliere sono mosse di puro restyling, a cominciare dal sempre invocato ritorno a Forza Italia. Berlusconi si immagina un po’ come il Renzi di se stesso, vuole ridare smalto al suo partito e colloca agevolmente nella frazione destra tutti quelli che un tempo furono i colonnelli. Non li caccerà, ma difficilmente farà grandi sforzi per mantenerli. Poi sarà comunque alleanza. Problemi più seri arrivano dal nord, dove la Lega si squaglia come i ghiacciai, ma il risultato è di freddo intenso nei rapporti tra (ex) alleati.

Come sempre nelle ore più difficili a Berlusconi non mancano i consiglieri, dalla fedelissima Biancofiore (sottosegretaria), che invita a recuperare «il profilo berlusconiano», a Scajola, sempre pronto a suggerire stampelle anche quando a crollare è la «sua» Imperia. Vero è che non è stata la sola: nella bacheca del Pdl c’era Roma e c’erano anche Treviso, Imperia e Brescia. E non ci sono più.