Condannato senza appello. In pochi minuti la sentenza della Cassazione rovescia le previsioni che avevano tenuto banco per ore nei palazzi della politica. La Corte «rigetta tutti i ricorsi». Conferma la condanna a quattro anni. Annulla la pena accessoria dei cinque anni di interdizione dai pubblici uffici e rinvia ad altra sezione della Corte d’appello di Milano perché ridetermini la pena.
Magrissima consolazione. La decadenza di Silvio Berlusconi da senatore scatterà lo stesso per via della legge anticorruzione del 2012. Lo ricorda il presidente della Giunta per le immunità del Senato Dario Stefano, che è deciso a procedere in tempi rapidi. «Ma non è vero – commenta dall’Argentina Antonio Di Pietro – che serve un voto della Giunta o del Senato come già sento dire. In questi casi si procede automaticamente, con una semplice comunicazione. E se non lo si fa è, senza alcuna esagerazione, un colpo di Stato».
I tempi per l’esecuzione della pena vera e propria saranno più lunghi. Ci sarà tempo fino al 15 ottobre per chiedere i domiciliari o l’affidamento in prova ai servizi sociali, la magistratrua di sorveglianza potrebbe impiegare qualche mese per concederla. Ma queste sono considerazioni secondarie. Il dato politico è inequivocabile e durissimo. I colonnelli del Pdl nemmeno provano a fingere di vedere il bicchieremezzo pieno. E’ vuoto più di come non si può e lo ammettono francamente tutti, inclusi gli avvocati che meditano addirittura ricorso presso la Ue.
Berlusconi reagisce con un videomessaggio durissimo, in cui afferma che «la giustizia è morta», accusa «una parte della magistratura» di condizionare da vent’anni la via politica e se non usa la parola golpe per le inchieste del 1992-93 il senso è quello. Contro di lui, c’è stato «un accanimento giudiziario senza precedenti». Non parla di pericoli per il governo ma nemmeno lo rassicura.
Ma c’è poco da rassicurare. Il rischio è altissimo, il governo vicino allo stato comatoso. Giorgio Napolitano, che di questa situazione è l’artefice numero uno, prova a spegnere l’incendio sul nascere. In un comunicato emesso a strettissimo giro afferma che «La strada maestra è quella della fiducia e del rispetto verso la magistratura». Traduzione: nervi a posto e toni bassi o qui salta tutto. In compenso «possono ora aprirsi condizioni più favorevoli» per la riforma della giustizia tanto auspicata dal condannato. Se ne stia dunque zitto e buono, decada e si faccia affidare ai servizi sociali senza un fiato e, forse, porterà a casa, qualche risultato nella sua eterna guerra contro le toghe. Però, dopo il fallimento della «pacificazione» in versione Arcore (nel resto del mondo «impunità») non è facile che il cassato si fidi o si accontenti.
Per il Pdl l’ora della scelta è arrivata. Può protestare ma senza alzare i toni e per «alto senso di responsabilità» continuare davvero ad appoggiare il governo. Oppure può portare alle stelle la tensione, ben sapendo che in quel caso dovrà per forza essere il Pd a far saltare il tavolo su cui gioca Enrico Letta. Il battibecco con Epifani, a cui i capigruppo Schifani e Brunetta intimano in dichiarazione congiunta di «rispettare la storia del Pdl e di Silvio Berlusconi» è eloquente di per sé.
Uno dopo l’altro alti e altissimi ufficiali convergono su palazzo Grazioli. Sembra di rivedere uno di quei vertici oceanici e interminabili che accompagnarono, alla fine del 1994, il «ribaltone». A tutti è consentito dire la loro, ma alla fine deciderà solo il diretto interessato. L’eventuale scelta di rompere non diventerebbe però operativa subito. Non si può far cadere un governo in seguito a una sentenza troppo sfacciatamente.
Ma i segnali arriveranno oggi stesso. Fino all’autunno, Enrico Letta resterà presidente del consiglio. Se arriverà al 2014 lo si comincerà a capire oggi. E Letta lo sa perfettamente. Non a caso mette da parte i toni rosei e si limita a un allarmatissimo: «L’interesse del Paese prevalga su quello di parte». Stavolta proprio non c’è ottimismo che tenga.