Le strategie dei partiti postulano scenari del tutto illusori per decifrare il volto del sistema politico del post voto. La persuasione più diffusa tra gli analisti è che incomba lo spettro (o il miraggio per taluni) del parlamento sospeso. Cioè nessuna maggioranza in aula.

E quindi, a schede contate, è d’obbligo il ricorso alla sapienza dei custodi per sbrigare le pratiche della governabilità. Niente di nuovo sotto il sole: altri governi tecnici o del presidente che dal 2011 suonano come l’eterna condanna dopo il crollo della seconda repubblica.

Questa aspettativa (anche di qualche cancelleria europea) in un voto nullo, che non consegna un vincitore, e rende probabile un governo di scopo poggia sulla sottovalutazione degli effetti maggioritari artificiosi che possono scaturire dalla nuova legge elettorale.

In un contesto tripolare e mezzo, con un Pd che non dispone di un potenziale coalizionale effettivo (cioè di qualcosa di più corposo rispetto all’ospitalità offerta a liste civetta al di sotto del 3 per cento), con un non-partito che pratica la virtù della corsa solitaria come un irrinunciabile valore, si spalancano le condizioni obiettive per il trionfo di una destra che la legge elettorale di Gentiloni ha resuscitato e che si stringe in un’armata comune.

Mentre crescono gli elogi per la saggezza acquisita dal cavaliere, sfuggono le insidie di questa quarta affermazione della destra. Il dato nuovo della coalizione che oggi marcia verso il potere è che in essa la componente aziendale-berlusconiana è subalterna rispetto alla egemonia culturale e organizzativa delle destre più radicali.

Rispetto al ciclo avviato negli anni ’90, la rottura politica è evidente. Allora era il cavaliere a distribuire le carte e a «sdoganare» le ali antisistema, che vagavano prive di una autonoma attitudine concorrenziale.

Oggi sono invece proprio le sigle più radicali a trainare la destra e rinvigorire un Berlusconi che recita anche in Europa la sceneggiata di sicuro argine verso i populismi.

GIÀ IN PASSATO L’ITALIA, sotto l’impulso del cavaliere, ha rotto il tabù della esclusione dal governo delle destre e dei populismi. Ma si trattava di forze dal modesto sostegno elettorale. Erano indispensabili al partito di plastica per allestire poli competitivi e però, al di fuori dell’alleanza con il sovrano dei media, restavano schiacciate.

Dalla percezione di una utilità marginale (nello scambio tra l’apporto alla coalizione a guida proprietaria e legittimazione a spartire rendite di potere), le destre sono passate a una posizione di monopolio e vantano una centralità coalizionale.

È Berlusconi a perire nell’irrilevanza (la sintonia con un Renzi in caduta libera è priva di vigore) senza un salvataggio dei populisti. Accreditate di un consenso superiore al 20%, le destre di Salvini e Meloni costituiscono la componente quantitativa più rilevante della destra e quindi sono destinate a imprimere un marchio programmatico dominante all’azione di governo.

SE SI SOMMANO I VOTI stimati per le destre estreme a quelli raccolti dal M5S (nel complesso oltre il 50% secondo le agenzie) si determina il fenomeno della maggioranza negativa. Capace di bloccare ogni altra soluzione di governo, essa non è in condizione di concordare tra le varie anime antisistema una alternativa condivisa. Sterili perciò sono gli esercizi per manovre parlamentari da escogitare per smontare e riaggregare le forze da mettere agli ordini del Quirinale. Destituita di ogni fondamento analitico è la velleità di sganciare Berlusconi dalla destra, in nome di una sua venatura più liberale (basta vedere le trasmissioni delle sue reti, come “Quinta colonna”, per smentire ogni leggenda sulla moderazione del cavaliere e cogliere l’organicità culturale del partito azienda alle istanze populistiche).

CON LE (SOLO) POTENZIALI fratture interne che la attraversano, la coalizione di destra non vanta una coerenza programmatica ma questo suo deficit non comporta che sia fragile e scomponibile quale aggregato di potere. Finché il populismo si concilia con gli affari aziendali, il cavaliere resterà obbediente nei ranghi. Lo scenario realistico per il dopo 4 marzo è perciò quello che scorge una destra minoritaria nel paese (meno del 40% dei voti) capace di acciuffare la maggioranza dei seggi e affidare un ruolo preponderante nel governo alle sue componenti di destra più radicali e populiste.

Il passaggio dell’egemonia da una destra aziendale che prende lo Stato in appalto a una destra politica radicale è la novità della fase. Sarebbe la prima volta in Italia che compare un esecutivo con l’impronta fondamentale delle correnti postfasciste e populiste. Anche su scala europea si tratterebbe di un fenomeno inedito nella vicenda istituzionale del secondo dopoguerra.

PER QUESTO, MIOPE PARE la condotta dell’élite italiana ed europea che condona l’aziendalismo berlusconiano, dimentica il conflitto di interesse e riceve il non-candidato come un salvatore perché calcola che il pericolo principale sia costituito dal M5S. Si tratta di un comportamento cinico in cui i ritrovati economico-finanziari (le ricette leghiste per l’abolizione della progressività del sistema fiscale allarmano meno delle proposte grilline per il reddito di cittadinanza) prevalgono sulle questioni costituzionali e democratiche (il richiamo identitario alla razza bianca suscita minore disapprovazione delle utopie iperdemocratiche della rete).

Non c’è alcuna possibilità reale di un successo del M5S, così fortemente penalizzato dalle alchimie della legge Rosato e dalla sordità verso ogni politica del dialogo con altre culture. Ma destre e Pd competono tra loro per accaparrarsi il riconoscimento di diga antigrillina.

LA VERA MINACCIA è l’onda di destra che potrebbe esportare il contagio populista su scala europea (oltre le già conquistate periferie orientali). Su questo terreno minato, il M5S dovrà sciogliere le sue ambiguità e compiere una chiara scelta di parte.

Responsabile della resurrezione della destra, il Pd uscirà dal voto come terza o forse quarta formazione parlamentare e quindi con un ruolo residuale che indurrà a disarcionare Renzi. In un sistema di nuovo esploso deve ripartire una strategia di ricostruzione di una plurale coalizione sociale e culturale nel segno della critica delle esclusioni del tardocapitalismo.

In uno scenario di aperta frana della democrazia, è essenziale intanto la sopravvivenza di una sinistra radicale che si proponga come intransigente opposizione. Si tratta di resistere alla caduta del patriottismo costituzionale e di operare per ridefinire una alternativa democratica alla erosione del sistema repubblicano. Solo una forte sinistra, che sa bene che oggi non può aspirare al successo immediato e che deve scontare una profonda autocritica per recuperare credibilità, è la condizione per resistere nel tempo burrascoso di una caduta della qualità democratica.