In Germania tra le elezioni e la formazione del governo sono passati tre mesi, senza particolari traumi. In Italia i due mesi che hanno portato al giuramento di Letta sono stati vissuti come una tragedia, il disperato approdo all’ultima spiaggia. Professor Carlo Galli, politologo e deputato del Pd, basta la nostra inclinazione al melodramma a spiegare questo andamento opposto?

Il carattere nazionale è un’invenzione; tra Italia e Germania ci sono profonde differenze di struttura istituzionale e di funzionamento del sistema politico. Quello italiano era (ed è) strutturato attorno al rapporto amico-nemico, complicato poi dall’emergere di un terzo attore più nemico di tutti. Grillo ha costretto Pd e Pdl a mettersi assieme contro ogni logica e previsione, e contro il discorso politico che ciascuno dei due aveva posto in essere. Si può sostenere che sono l’uno la versione di sinistra dell’altro, ma è indubbio che si trattava di coalizioni pesantemente ostili l’una all’altra. Se si sono messe assieme in soli due mesi è perché c’era una fretta terribile. Il sistema stava deragliando e bisognava essere in parlamento in quel mese e mezzo per capirlo: eravamo senza capo di stato, senza capo del governo e senza maggioranza.

Non trova che si è drammatizzato ad arte: in fondo Napolitano è stato eletto alla sesta votazione, quando abbiamo avuto presidenti eletti dopo oltre venti scrutini.

È vero li abbiamo avuti, ma in quell’epoca di grandissima stabilità che è stata la prima Repubblica, quando la costituzione materiale non si discuteva. Ci si poteva permettere di eleggere Leone al 23esimo scrutinio o Saragat al 21esimo perché era tutta tattica, la strategia era già stata decisa. Mentre adesso abbiamo un sistema politico a perenne rischio di smottamento, che non esercita più la presa sui processi economici e sociali. A tal punto la politica sbanda, che non siamo stati capaci di eleggere Marini perché noi grandi elettori del Pd siamo stati bersagliati via twitter e mail.

Per Prodi i problemi sono stati più seri.

A quel punto non c’era più il partito. Anzi, per essere precisi il Pd è saltato a causa della sconfitta elettorale. La mancata elezione di Marini ha certificato la distruzione della ragion d’essere del partito, su Prodi si sono consumate le vendette tra le bande che non facevano più partito. A quel punto, in un sistema politico pensato per essere binario ma diventato ternario, si è approdati in fretta e furia a un governo di necessità, senza nessuna trattativa com’è stato in Germania. Tant’è vero che poi Berlusconi ha potuto sostenere che nell’accordo c’era dentro anche il suo salvacondotto.

Lunedì Napolitano ha (finalmente) riconosciuto che in Italia le larghe intese non funzionano come altrove in Europa. Ha ricavato questa presa d’atto dall’abbandono di Forza Italia. Dalla sua analisi, professore, mi pare invece che le larghe intese italiane siano state dall’inizio una cosa assai diversa da quelle tedesche.

Da noi sono state l’eccezione. In Germania sono nel dna di un sistema che, piaccia o no, fa un dogma della stabilità sociale. E della stabilità costituzionale, perché la vera forza della Germania è il sistema federale che è scritto nella storia di quel paese. È un sistema fortemente stabilizzante perché non carica il centro di tutta una serie di questioni che vengono risolte nei territori. E perché prevede un organo, il senato federale, nel quale i principali partiti sono costantemente incentivati a trovare un punto d’accordo. Dunque le larghe intese nascono da una serie di incentivi alla collaborazione tra le forze politiche che sono scritti nella costituzione.

Ma il sistema federale comporta anche che la Germania, e di riflesso l’intera Europa, finisca ostaggio delle aspettative dei bavaresi.

Fa parte del realismo politico accettare che chi è più capace di intervenire e influire, intervenga e influisca. Se non c’era la Baviera c’era la Prussia.

Questa stabilità costituzionale si traduce allora in immobilismo, ripetizione di politiche economiche fallimentari.

Certo, ma non vorrei che dessimo alle larghe intese in Germania la colpa di quello che sta succedendo in Europa. La Germania è un problema a prescindere, semplicemente perché per dimensioni e ricchezza è fuori scala rispetto agli altri stati europei.

Dunque non siamo noi a dover uscire dall’Europa?

Se la Germania fosse lungimirante, sarebbe candidata a essere la potenza egemone europea, come la Baviera lo è della Germania. Ma non è così, i tedeschi sono più che altro timorosi e diffidenti, ragionano sulla difensiva e allora ecco le politiche egoistiche, chiuse.

Se l’Spd ha ottenuto molto nella trattativa con Merkel è perché ha mantenuto la sua solidità di partito?

Sì, l’Spd è stato il prototipo di tutti i partiti europei ed è rimasto tale, non è leggero né leaderistico. Con tutti i suoi limiti e la sua elefantiaca lentezza, e con la sua capacità di sacrificare sempre – da quando votò i crediti di guerra nella prima guerra mondiale – il socialismo alla Germania.

È per questo che i punti di politica economica che l’Spd ha segnato sono tutti, per così dire, protezionistici? Sul rigore europeo è rimasto quasi più rigido di Merkel.

La Germania è questa, ma in tutta Europa i centri di iniziativa strategica sono rimasti centri nazionali. Vige la buona vecchia regola che il più forte e più organizzato determina dinamiche a proprio favore. Subito il colpo della bocciatura della costituzione europea, le dinamiche dei nazionalismi sono tornate forti. Il nazionalismo egemone della Germania che impone lo status quo, ma anche l’anti europeismo fondato su un’immaginaria Europa dei popoli o delle regioni, di fatto a sfondo etnico e ascrivibile all’universo teorico e pratico della destra.

Nel parlamento tedesco c’era però anche una maggioranza diversa, con Verdi e Linke. L’Spd l’ha rifiutata, malgrado il ritorno alla larga coalizione fosse stato tenuto nascosto dai socialdemocratici in campagna elettorale, persino negato. Non è allora solo grazie al sistema elettorale proporzionale che queste «collaborazioni» possono ripetersi?

Il caso tedesco dimostra a mio avviso che il bipolarismo imposto dalle leggi elettorali obbedisce a una logica di sfiducia verso la politica. Si pretende di conoscere la formazione del governo già la sera delle elezioni, quando invece la politica non è questo duello. Forme di bipolarismo spontanee, o quasi, dipendono dall’assetto storico della politica e delle istituzioni. Altrimenti c’è un normale pluralismo da gestire con un sapiente uso del sistema proporzionale. Non sta scritto da nessuna parte che un sistema bipolare, forzato dalla legge elettorale, garantisca stabilità. Anzi, i nostri ultimi venti anni dimostrano il contrario.