Il Muro di Berlino era lungo poco più di 155 chilometri, ma rappresentava una linea che tagliava in due il mondo. La generazione che fece del rock una cultura di massa era composta da giovani nati dopo il secondo conflitto mondiale e negli anni della guerra fredda. Erano i figli di una realtà fatta di frontiere, conflitti, contrapposizioni. Il Muro diventò quindi il simbolo più eloquente di un’epoca e un’immagine frequentissima nelle canzoni. Fu una raffigurazione potente e onnipresente nell’immaginario visivo e poetico degli artisti musicali, non solo legata a scenari da guerra fredda.
AL CENTRO
Il Muro era fisico ma anche mentale, una barriera sociale e politica, una prigione esistenziale da cui tentare di evadere. Berlino era al centro di tutto questo. Una città che esercitava un’attrazione contagiosa. Il settore ovest era un’enclave di liberà e di cultura alternativa in una metropoli ferita che era stata luogo di cultura e tolleranza, culla di trasgressioni e avanguardie, capitale di un impero del male che doveva durare mille anni e era stato ridotto a un cumulo di macerie. Era diventata suo malgrado la prima linea di un nuovo scontro di civiltà.
Questo fascino decadente divenne per gli artisti in cerca di ispirazione un posto di frontiera dove smarrirsi, ma anche un rifugio di anime dannate. Iggy Pop e David Bowie alla fine degli anni ’70 vi si ritirarono dopo aver affrontato un tour insieme da cui erano usciti provati fisicamente e mentalmente, in preda a una forte crisi di rigetto per il mondo dello spettacolo. Iggy rilanciò la sua carriera con gli album the Idiot e Lust for Life; un viaggio sulla S-Bahn berlinese lo spinse a scrivere una delle sue canzoni più celebri The Passenger.
Bowie ritrovò una creatività e un equilibrio che credeva di aver perduto con quella che oggi è nota come la sua «trilogia berlinese» composta dagli album Low, Heroes e Lodger, usciti tra il gennaio ’77 e il maggio ’79. Molti brani di questa triade vennero incisi a ridosso della barriera che divideva l’ovest dall’est negli studi discografici Hansa che si affacciavano proprio sul filo spinato. Ma non era necessario respirare il clima della città tedesca per sentirsi all’ombra del Muro. Lou Reed nel 1973 aveva pubblicato l’album Berlin dedicandolo a un luogo che all’epoca aveva visitato solo nella sua immaginazione. Lo percepiva come una metafora di una contemporaneità, lo scenario ideale per ambientare un concept album fatto di disagio e dolore che parlava di una famiglia che si stava disintegrando. «Amavo l’idea di una città divisa», spiegò il cantante newyorkese che all’epoca delle registrazioni era schiavo di alcol e droghe e stava vivendo una tormentata (e spesso violenta) relazione con Bettye Kronstad che divenne sua moglie in un matrimonio tanto breve quanto tumultuoso.
Nel 1977 la pietra miliare punk Never Mind the Bollocks, Here’s the Sex Pistols dei Sex Pistols si apriva con le furiose note di Holidays in the Sun che liquida le «vacanze al sole» nei primi versi per diventare in realtà un isterico resoconto di un viaggio berlinese. La canzone fu scritta dopo un viaggio di due settimane nella città tedesca che diventa ancora una volta simbolo di un disagio più profondo.
IN PRIGIONE
«Essere a Londra ci faceva sentire come se fossimo rinchiusi in un campo di prigionia – ha ricordato il leader dei Sex Pistols nella sua autobiografia -. La cosa migliore che potessimo fare era andare in un altro campo di prigionia. Berlino e la sua decadenza furono una bella idea. Amammo il Muro e la follia del posto. I comunisti guardavano l’atmosfera da circo di Berlino ovest che non dormiva mai».
Ma l’album che colse più l’essenza potente e simbolica, quasi esistenziale, del Muro uscì quasi dieci anni esatti prima del crollo. The Wall dei Pink Floyd venne pubblicato il 30 novembre 1979. Berlino non viene neppure citata nelle ventisei canzoni del doppio lp, strutturato come una rock opera. Il muro è quello che erige attorno a sé la rockstar Pink che si rinchiude in un delirio tossico e allucinatorio, maniacalmente perseguitato dalle memorie di un padre morto in guerra e di un’educazione oppressiva e disumanizzante, spinto a vagheggiarsi, intontito dalle droghe e dalla fama, un dittatore fascista, fino a una ottenere una sofferta catarsi e una, forse illusoria, liberazione finale.
PROGETTO SOLISTA
Il disco era sostanzialmente un progetto solista di Roger Waters che parlava del vuoto lasciato dal padre morto a Anzio combattendo i nazifascisti, parlava del suo amico e fondatore dei Pink Floyd, Syd Barrett, persosi nelle droghe e nella malattia mentale, ma parlava delle paure e delle angosce del mondo contemporaneo che si materializzavano in quei quasi 160 chilometri di cemento e postazioni armate che separavano est e ovest.
Vale forse la pena ricordare che The Wall fu accolto male da molta critica che lo ritenne magniloquente e pretenzioso e ai Grammy Awards venne battuto dal disco di esordio di Cristopher Cross. Ma colse straordinariamente lo spirito dei tempi e venne soprattutto letto dal pubblico in una chiave anti-autoritaristica e anti-militaristica. Il 21 luglio 1990 Waters, ormai senza gli altri Pink Floyd, mise in scena la sua opera a Potsdamer Platz davanti a più di 300mila spettatori nel più grande evento pubblico organizzato per celebrare la caduta del Muro. Un funerale in musica per un errore della storia.
In una curiosa coincidenza nel 1979 un altro disco con un muro nel titolo sconvolse il panorama musicale. Nell’agosto di quell’anno Michael Jackson pubblicava Off the Wall, l’album che segnava l’inizio della sua maturità artistica e l’alba di un colossale successo planetario. Il titolo (letteralmente «via dal muro», «schizzato dal muro», e nel gergo comune «stravagante», «insolito»), significava per Jackson il segno di una nuova vita, emancipata dall’opprimente peso dell’immagine del bambino prodigio, e di un successo musicale vissuto come membro del gruppo familiare dei Jacksons. In questo caso l’immagine del muro evocata sembra distante anni luce da suggestioni berlinesi ma, curiosamente, non è affatto così. Il brano Off the Wall era stato infatti scritto da Rod Temperton uno degli eroi nascosti della storia del pop. Temperton, musicista inglese che scriverà anche per Jacko Rock with You e Thriller, aveva scoperto il pop da bambino ascoltando Radio Luxembourg, la prima radio privata europea che abbatteva le frontiere di un continente diviso e veniva ascoltata clandestinamente anche oltre la cortina di ferro.
TERRENO FERTILE
Negli anni ’70 Temperton aveva iniziato la sua carriera di musicista professionista proprio nel cuore della guerra fredda, in Germania, dove si esibiva interpretando classici del soul per i soldati Usa stanziati nelle basi Nato.
L’opprimente mole del Muro e il disagio della separazione non poteva non entrare anche nella musica tedesca. Da notare che la Germania (ovest) nei ’70 divenne un terreno fertile di sperimentazioni musicali tanto da partorire un genere che i critici anglosassoni definirono, con un po’ di snobismo, krautrock. Era una scena che evitava di occuparsi di politica e di temi sociali. Era però inevitabilmente figlia di un’epoca. Come ha scritto il critico David Stubbs nel saggio Future Days: Krautrock and the Building of Modern Germany: «Le convulsioni del krautrock, tra rumore e bellezza, suoni metallici e naturali parlano di traumi e di guarigioni, distruzione e rinascita, ma a un livello subliminale, non esplicito». Questo apparente silenzio sulla divisione del paese era però talvolta violato. Nel 1983 il più grande successo musicale made in Germany fu il brano 99 Luftballons della cantante Nena. Il 45 giri andò al primo posto in tutti i paesi europei, negli Stati Uniti divenne il più grande successo discografico di un singolo non cantato in inglese. I 99 palloncini del testo, scritto dal chitarrista Carlo Karges, erano stati ispirati dal concerto dei Rolling Stones nel 1982 a Berlino ovest. Nel corso dello show erano stati liberati centinaia di palloncini nel cielo e il musicista si immaginò cosa sarebbe successo se tutti insieme avessero sorvolato il Muro. Nella canzone i palloni vengono scambiati per un Ufo e abbattuti dai caccia. Il brano diventa così una parabola della storia della Germania: «99 anni di guerra non lasciano spazio per i vincitori. Non ci sono più ministri della guerra né aerei a reazione. (…) Vedo il mondo in macerie. Ho trovato un palloncino. Penso a te e lo lascio volar via». Nel frattempo a est, dall’altra parte del muro, la musica non poteva essere fermata. Nonostante i divieti del partito (dal 1965 erano stati proibiti i gruppi con chitarristi, salvo riallentare le maglie della censura tre anni dopo), nonostante le commissioni culturali del partito che imponevano testi in tedesco e decidevano quali artisti potessero suonare e avere diritto a speciali sussidi. A livello sotterraneo c’erano almeno duemila band che si esibivano segretamente nelle trattorie o nelle zone più periferiche del paese, fiancheggiando nomi più noti quali City, Lift, Karat, Puhdys, il Klaus Renft Combo o Nina Hagen, l’unica star internazionale prodotta dalla Germania Est. E lì la musica arrivava sempre e comunque, attraverso i programmi trasmessi da radio e tv del settore Usa di Berlino come la Rias o da emittenti come la Sender Freies Berlin, la tv pubblica di Berlino. C’era poi un programma come Beat-Club, che da Chuck Berry ai Doors, dai Rolling Stones a Ike & Tina Turner propagava il virus.
LE ANTENNE
La Fdj, l’organizzazione giovanile della Ddr, aveva invano tentato di far orientare le antenne verso est, ma niente da fare, se avessero insistito avrebbero messo a serio rischio la pace interna del paese. E con questo assunto si è sempre proceduto, prima censurando e poi allentando progressivamente le maglie per non incorrere in turbolenze peggiori. Dal canto loro gli artisti quando si esibivano accreditavano nei bollettini (tipo Siae) brani in tedesco e in realtà suonavano classici del rock. E così si andava avanti, finché non si veniva scoperti, censurati, riabilitati o silenziati per sempre.
Negli anni Ottanta il rock della Ddr arriva a un punto finale, o almeno quello dei nomi più titolati e fin qui menzionati. I ragazzi dell’est scoprono, infatti, la Neue Deutsche Welle (la new wave tedesca, occidentale), scoprono chenomi come Trio, Extrabreit o Fehlfarben possono utilizzare suoni e linguaggi più agili e di impatto ma pur sempre molto pensati e ben assemblati. Inoltre il partito comincia a permettere l’ingresso di star occidentali nella Ddr. In questo modo arrivano «gli artisti originali» e non è quasi più necessario rivolgersi ai gruppi locali che negli anni – più o meno segretamente – rieseguivano pezzi di Santana, David Bowie, Dylan o Rolling Stones. A ovest, intanto, il fascino di una città divisa e inquieta continuava a sedurre una sfilza di artisti. Negli anni ’80 Nick Cave e i suoi Birthday Party arriveranno, ad esempio, in città, in cerca di identità dopo essere passati dalla loro Australia a Londra. A Berlino diedero vita ai Bad Seeds incidendo negli stessi Hansa Studios a ridosso del Muro utilizzati da Bowie. Contemporaneamente altre tipologie di muri e divisioni andavano erigendosi altrove, in Gran Bretagna ad esempio. Qui il fronte erano le lotte della working class e il nemico era il governo di Margaret Tatcher. Tra i musicisti, gli Style Council di Paul Weller non avranno remore a unire messaggi di rivolta e musica leggera in un pezzo come Walls Come Tumbling down!, probabilmente l’invito alla ribellione più melodico di sempre.
Se il comunismo sovietico aveva eretto un Muro, il capitalismo liberista della Lady di Ferro aveva diviso la società. Paul Weller fu uno dei maggiori esponenti del collettivo di artisti Red Wedge che tentò di riportare la politica al centro degli interessi giovanili e di coinvolgere una nuova generazione contro la macelleria sociale di destra dei Tory. In un altro emisfero il sudafricano Johnny Clegg, lo «zulu bianco» eroe della musica africana scomparso lo scorso luglio, nel brano Berlin Wall contenuto nell’album Third World Child riportava nel sud del mondo il dramma della separazione tra est e ovest. L’apartheid contro cui Clegg si batteva era in parte tenuto in vita proprio dalla logica dei blocchi contrapposti.
NELL’ARIA
Ma il cambiamento era nell’aria. Mikhail Gorbachev, segretario generale del partito comunista dell’Unione Sovietica dal 1985, iniziò la politica della trasparenza. Nel 1987 un concerto di David Bowie e altri artisti nella piazza davanti al Reichstag portò migliaia di giovani a radunarsi a est a ridosso del confine, sotto il tiro dei fucili nella speranza di ascoltare anche solo da lontano un suono che richiamava la libertà. Il Duca Bianco ricorderà così quell’evento: «Fu una delle più emozionanti performance della mia carriera. Ero il lacrime».
Le cose, insomma stavano cambiando, con gruppi punk che nonostante i pedinamenti e i guai con la Stasi, nascevano ovunque nel paese. Non chiedevano di essere amati o sovvenzionati dallo stato, non volevano contratti discografici ma lasciavano che i loro pezzi e eventi live illegali filtrassero attraverso una ridda di cassette distribuite tra gli amici. In questo ambito si formeranno, ad esempio, i Feeling B da cui negli anni scaturiranno i noti Rammstein. E così fino al settembre 1987 quando a Berlino Est si esibiscono anche Bob Dylan con Tom Petty e Roger McGuinn. Fu un evento controllato, davanti a un pubblico di 80mila persone di cui più di un terzo era personale governativo o loro conoscenti. Nell’agosto del 1988 nel settore est fu invitato Bruce Springsteen: più di 200mila persone.
Il Boss non nominò mai il Muro, ma il suo concerto fu un indimenticabile inno alla libertà. Disse al pubblico, in tedesco: «Non sono venuto qui per cantare a favore o contro alcun governo, ma soltanto a suonarvi rock’n’roll, nella speranza che un giorno tutte le barriere possano essere abbattute». Per molti si respirava la fine di un’epoca. Poco dopo, gli americani Rem pubblicavano l’album Green con dentro World Leader Pretend, brano che Michael Stipe descriverà come «la canzone più politica che abbia mai scritto». «Questo è il mio errore – cantava Stipe – lasciatemi rimediare. Io ho innalzato il Muro e io sarò quello che lo abbatte».
Il Muro di Berlino è ormai diventato storia, memoria, macerie e souvenir. Ma la lotta contro i muri, fisici o allegorici, non si è conclusa nel 1989. Nella canzone del 2007 Serji Tankian, leader dei System of A Down, nel suo brano da solista Empty Walls (Mura vuote) racconta dell’illusoria sicurezza dei muri che oggi le società si costruiscono attorno con guerre e conflitti internazionali. E se nel 1987 il presidente Usa Ronald Reagan diceva davanti alla porta di Brandeburgo «Abbattete questo muro!», nel 2016 Trump è stato eletto con la promessa di costruirne uno. Il cantautore inglese Billy Bragg gli ha risposto con il pezzo (scritta da Anaïs Mitchell) Why We Build the Wall. Anche Bon Jovi, non certo così politicizzato, ha replicato al suo presidente con il pezzo Walls: «Costruite più ponti, abbattete i muri». Mentre i punk californiani Bad Religion nel loro ultimo album The Age of Unreason descrivono il progetto di Trump come «un patetico e triste sigillo di vergogna».
A 30 anni dal crollo del Muro di Berlino ci sono ancora troppi confini da cancellare. Ma la musica forse ci dà una speranza. Il 10 gennaio 2016 moriva David Bowie. Dopo la trilogia berlinese e il celebre concerto del 1987 era tornato a raccontare una delle sue patrie artistiche nel brano Where Are We now? del 2013. La capitale della riunita Germania è una città che un Bowie ormai anziano sembrava non riconoscere più.
Dove una volta c’era un confine tra due mondi ora c’erano luoghi divenuti ordinari, popolati però di memorie e della malinconia di chi li ha visti in gioventù. Bowie non si è mai dimenticato della sua Berlino e Berlino non si dimenticherà mai di lui. Il governo tedesco il giorno della sua morte lo ha salutato così: «Addio David Bowie. Ormai sei tra gli ’Eroi’. Grazie per averci aiutato ad abbattere il Muro».