«I sondaggi sono incoraggianti, ma non dobbiamo credere di avere la vittoria in tasca: sarà un testa a testa. E se non avremo la maggioranza con gli alleati liberali (Fdp), ci troveremo al governo i comunisti della Linke: i socialdemocratici (Spd) si alleeranno con loro, ne sono sicuro». Il compito di Karl-Georg Wellmann è soltanto uno: motivare la propria base elettorale a impegnarsi fino al 22 settembre. Non deve convincere chi lo sta ascoltando della bontà della politica della cancelliera Angela Merkel, democristiana (Cdu) come lui: «La Germania è la locomotiva d’Europa, l’economia cresce, i conti sono in ordine: dobbiamo andare avanti così», viene detto. E qua nessuno nutre il minimo dubbio.

Siamo a Zehlendorf, tranquillo quartiere borghese di Berlino: 280mila abitanti, è un bastione dei conservatori in una città progressista. È venerdì sera, e la Cdu della zona ha organizzato in un’ordinata piazzetta pedonale la festa che dà inizio alla sua campagna elettorale: il deputato uscente Wellmann è l’ospite d’onore. Già eletto quattro anni fa in questo collegio, certo della riconferma, si aggira affabile fra le tavolate a stringere mani e farsi fotografare. «Ha ragione: la prima cosa da evitare è che i comunisti vadano al governo», ci conferma Werner Gohmert, 75 anni, tessera Cdu in tasca da quando ne aveva 24.

Siamo nella tana del lupo: lo spettro anticomunista, nella Berlino ovest profonda, fa presa. «Il manifesto? Das Manifest? Sarà mica un giornale marxista?», ci chiede tra l’inorridito e l’incuriosito Angela Stolpe, elegante sessantunenne, da 40 anni nel partito. «Fa lo stesso: noi siamo democratici», dice accettando di rispondere a un paio di domande sulla politica europea dell’omonima cancelliera.
«La colpa della crisi è del socialdemocratico Gerhard Schröder: fu lui, quando era al governo, ad accettare l’ingresso della Grecia nella moneta unica. Ma si sapeva che non ce n’erano le condizioni, e adesso ne paghiamo tutti le conseguenze. Ora, però, che la frittata è fatta, sono contraria a un’uscita dall’euro dei Paesi in crisi». Angela critica Schröder – come peraltro ha fatto da poco anche il segretario Spd Sigmar Gabriel in un’intervista a der Spiegel -, ma non esclude una coalizione con i socialdemocratici: «Nulla in contrario. La grosse Koalition funziona sempre».

Impossibile trovare, fra i democristiani di Zehlendorf, qualcuno che non si dica europeista. Quasi nessuno ha la percezione che la Germania stia esercitando un ruolo egemone, tantomeno nel nome dei propri interessi nazionali. A mostrarsi un po’ più critico è Marco Hahnfeld, 23 anni, studente di giurisprudenza: «Capisco che i greci protestino. Avere la sensazione che qualcuno venga da fuori a dirti, ad esempio, che devi chiudere la televisione pubblica non può non provocare reazioni», concede. Ma le «riforme», naturalmente, sono necessarie.
Marco è cordiale, e ha già la stoffa del professionista: l’impressione è che lo attenda una brillante carriera politica. «Sono nella Cdu perché, dopo l’era di Helmut Kohl, ha saputo rinnovarsi e abbandonare vecchie posizioni: ad esempio, accetta le unioni civili fra omosessuali. Io personalmente sono per andare oltre: ci vuole il matrimonio per tutti con gli stessi diritti». Anche per lui, l’alleanza con la Spd non sarebbe un problema, e riconosce che un governo con i Verdi potrebbe risultare un esperimento interessante.
Dal palchetto montato dove ora una pianola e un sax accompagnano le chiacchiere dei militanti seduti ai tavoli – molta birra, ma anche prosecco per i più raffinati -, il candidato Wellmann aveva tuonato poco prima contro «l’orgia di aumenti delle tasse» che si scatenerebbe in caso di vittoria delle sinistre. «Questo è il tema decisivo» afferma sicuro Franz Trimburn, 69 anni, avvocato: «Piccoli imprenditori e professionisti sono già oberati di imposte. Se non ci fosse la Cdu, si farebbe tutto quello che vogliono i sindacati, e gli unici a essere tutelati resterebbero gli operai delle grandi imprese, che guadagnano bene ma si fanno passare per vittime. Mi creda, è così», dice.

Dopo il viaggio in partibus infidelium, l’indomani ci rechiamo a Potsdam, capitale del Land Brandeburgo (2,5 milioni di abitanti), uno dei più «rossi» del Paese: una zona che per i giornali conservatori continua a essere «una Repubblica democratica tedesca (Ddr) in miniatura». Per ogni elettore di quello che qua in Germania viene chiamato «campo borghese (bürgerliches Lager)», ovverosia Cdu e liberali, ce ne sono due che scelgono Spd o Linke. Nel 2009 la più votata è stata proprio la formazione social-comunista, che raggiunse il 28,5%, a fronte del 12% raccolto a livello federale. Mantenere quel risultato è, ovviamente, l’obiettivo della locale federazione della Linke, come ci confermano più voci raccolte alla festa di apertura della sua campagna elettorale.

È un sabato di sole, il vento che ha spazzato via le nuvole disturba un po’, ma non al punto da rovinare la giornata dei circa duecento militanti radunatisi nella stupenda cornice del Lustgarten, curatissimo parco fra i palazzi barocchi della corte prussiana. Moltissimi banchetti pieni di materiale (da riviste marxiste a volantini per il calcio femminile), l’immancabile chiosco di bratwurst, animazione per bambini: al centro, un palco sul quale si alternano i candidati e gli amministratori locali. In questo Land i social-comunisti governano con la Spd: «Con ottimi risultati», ci dice il cinquantaseienne Andreas Bernig, di mestiere poliziotto, ora deputato al parlamento regionale. «Ma la politica federale è un’altra cosa: per fare un’alleanza, i socialdemocratici dovrebbero accettare la nostra linea sulla politica estera. E cioè: niente missioni dell’esercito tedesco all’estero, in nessun caso».
Il pacifismo radicale è un elemento d’identità molto forte per la Linke. Nei militanti più anziani ci sono anche retaggi del «pacifismo di stato» che imperava nella Ddr, nel nome del quale i vertici giustificavano qualunque nefandezza. Tutti i nostri interlocutori sono stati, non a caso, iscritti alla Sed, il «partito socialista unificato» al comando della Germania orientale da cui trae origine – in parte – l’attuale Linke. Ad esempio, Ilse Müller, 82 anni: «Io ho vissuto la guerra da bambina – racconta – e da quando ho raggiunto l’età della ragione ho sempre condiviso l’idea fondamentale di quel partito, che era quella di difendere la pace. Quell’idea è mantenuta oggi dalla Linke, che è l’unica forza a essere davvero contro la guerra: per me è la cosa più importante».

Molto scettico sulla possibilità di un patto con la Spd è Burchardt Ackermann, 68 anni: «Per me, i dirigenti socialdemocratici non si distinguono in nulla da quelli della Cdu. Il candidato cancelliere Peer Steinbrück potrebbe essere tranquillamente il migliore capo di governo democristiano della storia della Repubblica federale», afferma sorridendo. «È vero che nel loro programma ci sono cose condivisibili, come la critica della politica di austerità di Merkel. Ma se si scava un po’ più in profondità, ci si accorge che anche la Spd è un partito borghese: ad esempio, non sono contrari alla privatizzazione dell’industria elettrica o dei servizi idrici, che secondo me devono essere dello stato».

In un ambiente dove si respira molta Ostalgie, come viene chiamata con un gioco di parole la nostalgia dell’estinta Ddr, le persone che non hanno i capelli bianchi si contano sulle dita di una mano. Una di loro è Tina Lange, insegnante di 25 anni, sguardo serio e riflessivo, che in una coalizione con Spd e Verdi ci spera. «Il tema più difficile è certamente la politica estera: sulle missioni militari all’estero non faremo compromessi. Sul resto un’intesa è più facile. Ad esempio, noi chiediamo un salario minimo per legge di 10 euro, i socialdemocratici propongono 8,5 euro: incontrarsi a metà strada si può».

Non è una novità, a sinistra: il terreno più scivoloso è quello delle scelte sulla guerra. Vale ovunque, e da sempre: almeno dal 1914, quando il Partito socialdemocratico votò nel Reichstag i crediti con i quali il governo della Germania imperiale poté finanziare l’impresa bellica. L’unico del gruppo parlamentare a non farlo fu Karl Liebknecht. Dai tempi della prima guerra mondiale qualcosa è cambiato: alle masse non è più presentata l’alternativa fra «dominio mondiale o rovina (Weltmacht oder Untergang)». Ora, nel discorso pubblico fa capolino un insidioso dilemma: intervento militare o indifferenza verso crimini contro l’umanità.

Un dilemma ovviamente falso, ma che ha contribuito a formare la visione del mondo di molta parte della sinistra europea dagli anni Novanta. I Verdi tedeschi ne sono una testimonianza esemplare. Pacifisti, hanno appoggiato i bombardamenti Nato sulla Serbia nel 1999 all’insegna dell’imperativo categorico: «Mai più genocidi dopo Auschwitz». Due anni dopo, l’invio di truppe tedesche in Afghanistan con l’operazione Enduring Freedom. «Scelte sofferte, che ci sono costate anche l’abbandono di molti iscritti. Ognuna fa storia a sé, ma il principio che vale è: il ricorso alle armi va evitato, ma se uno stato ne aggredisce un altro o usa violenza contro i cittadini, non si può stare a guardare», ci dice Julian Schwarze, trentenne attivista dei Grünen.

Lo incontriamo domenica pomeriggio, nel grande parco del quartiere berlinese di Friedrichshain, dove i Verdi hanno organizzato una festa per i bambini della zona. «La facciamo tutti gli anni, non solo in campagna elettorale», ci spiega Feras Al-Hasaki, studente di 25 anni, mentre allestisce il banchetto con palloncini, fogli e matite colorate. Siamo in una roccaforte degli ecologisti: in questo collegio elettorale (che comprende anche Kreuzberg, lo storico quartiere turco e antagonista di Berlino ovest) sfiorano il 50%, mentre la somma dei «partiti borghesi» si ferma al 15%. E se anche i Verdi fossero diventati un partito borghese, come dicono i critici?
«Guardiamoci attorno: indubbiamente i nostri elettori, in linea generale, guadagnano bene e fanno parte del Bildungsbürgertum, la borghesia colta», ci dice Anne Theuerkauf, 24 anni, dell’organizzazione giovanile Grüne Jugend. In effetti, le famiglie che hanno portato qua i figli sono riconoscibili a occhio nudo come benestanti, anche se dallo stile di vita «alternativo»: in Francia li chiamerebbero «bobo», bourgeoisbohème. «Ma quello che conta sono le nostre proposte: e noi siamo un partito di sinistra, che si batte per la giustizia sociale», afferma sicura Anne. Di fianco a lei annuisce Gesine Agena, 26 anni: «Qua a Friedrichshain-Kreuzberg siamo tutti favorevoli a un’alleanza non solo con la Spd, ma anche con la Linke. Con i democristiani non vedo alcuna possibilità di formare un governo: ci sono troppe differenze, ad esempio su immigrazione, diritti civili, pari opportunità, ma anche sulla politica economica ed europea».

È vero: fra i nostri interlocutori – nessuno ha più di 35 anni – non ne troviamo uno che sostenga l’ipotesi di coalizzarsi con Merkel. E nessuno avanza riserve nei confronti della Linke: «Non ci importa la loro storia, quello che conta è il loro programma», ragiona Feras. Tutti riconoscono, però, che nel partito a livello federale il dibattito è aperto. A prendere in considerazione la possibilità di un patto con la Cdu non ci sono solo i Verdi del ricco Land meridionale del Baden-Württemberg, dove governa il primo esecutivo con un presidente ecologista. Ma anche, senza andare così lontano, i Grünen del quartiere berlinese da cui siamo partiti venerdì sera. Un interesse, va detto, non sempre corrisposto: «Qui a Zehlendorf i Verdi sono borghesi come noi, ma le assicuro che è un’eccezione. Se la Cdu si dovesse alleare con loro, è la volta che, dopo 51 anni, esco dal partito», ci aveva confessato il combattivo democristiano Werner, sorseggiando il suo prosecco.