Ieri un bombardamento saudita ha ucciso quattro civili, tra cui un bambino, nella provincia yemenita di Hajjah. Ma serviva un giornalista fatto a pezzi per convincere il mondo che l’Arabia saudita non è un paese democratico. La terribile fine di Jamal Khashoggi è riuscita dove oltre 15mila civili yemeniti avevano fallito: interrompere la vendita di armi verso Riyadh.

Il primo passo lo compie la Germania: domenica la cancelliera Merkel ha congelato i contratti di vendita di armi ai Saud fino a quando la questione non sarà chiarita. Congelate, dunque, non stracciate: «Primo, condanniamo questo atto nei termini più forti – ha detto in conferenza stampa – Secondo, c’è un urgente bisogno di chiarire cosa è successo. Terzo, concordo con quelli che dicono che, sebbene già limitare, le esportazioni di armi non possono essere realizzate in queste circostanze».

Anche sul «limitate» si può discutere: con quasi 600 milioni di dollari in licenze, Berlino è il quarto esportatore militare verso Riyadh, dopo Stati uniti, Regno unito e Francia. E non potrebbe farlo: la legge tedesca vieta di rifornire di equipaggiamenti militari paesi che violano i diritti umani. In Yemen accade ogni giorno con bombardamenti su mercati, scuole, cliniche, zone residenziali, anche per mano tedesca: è il caso delle bombe prodotte dalla Rheinmetall, che ha sede anche in Sardegna, o dei fucili d’assalto G36 della Heckler&Koch. A fine settembre, nonostante l’accordo interno alla coalizione di governo siglato lo scorso gennaio lo vietasse, Berlino ha dato il via libera alla vendita di sistemi di puntamento per l’artiglieria ai sauditi, dal valore totale di 416 milioni di euro.

Ieri mattina il ministro tedesco dell’Economia Peter Altmaier ha fatto appello agli altri Stati membri della Ue perché seguano l’esempio di Berlino e coordinino una risposta congiunta al caso Khashoggi: «Non ci saranno effetti positivi se si interromperanno le esportazioni e poi altri paesi riempiranno il vuoto». Poco dopo in un comunicato i ministri degli esteri di Germania, Francia e Regno unito hanno condannato l’assassinio del giornalista e ribadito di avere come priorità la libertà di espressione e di stampa. Non hanno però spiegato come intendono agire né perché prima d’ora non si erano accorti della sistematica violazione di tali principi da parte saudita, sia in casa contro dissidenti e oppositori, che fuori (il caso del Bahrein e dello Yemen).

Intanto le indagini proseguono con continue rivelazioni da parte degli investigatori turchi, uno stillicidio di informazioni che fa pensare all’assenza al momento di un accordo tra Akara e Riyadh su come gestire la questione. E mentre il presidente turco Erdogan ha promesso di rivelare oggi tutti i dettagli, ieri re Salman ha ordinato la rimozione di alcuni vertici dei servizi segreti sauditi, tra cui l’assistente capo dell’intelligence generale Mohammad bin Saleh al-Rumaih e il direttore della direzione generale della sicurezza, Rashad bin Hamed al-Muhamadi. Un ordine che arriva nel giorno in cui Riyadh per la prima volta parla di omicidio, e non più di semplice morte del giornalista in auto-esilio negli Usa. L’obiettivo è chiaro: spegnere la tempesta individuando le solite mele marce.

Peccato che quelle mele marce (l’ultimo video pubblicato dalla Cnn lo dimostra: Mustafa al-Madani, tra i 15 sauditi che avrebbero ucciso Khashoggi, viene ripreso mentre gira per Istanbul con addosso gli abiti del giornalista per sviare l’inchiesta) sono tra i più stretti collaboratori del principe ereditario Mohammed bin Salman. Forse quel commando di cui ieri scriveva Middle East Eye, una squadra della morte creata un anno fa dal delfino e ribattezzata Tiger Squad, il cui compito è quello di eliminare fisicamente gli oppositori.

Inoltre, secondo un giornale turco filo-governativo Maher Abdulaziz Mutreb, a capo del commando dei 15 sospetti e braccio destro di Mbs, il 2 ottobre – giorno della sparizione di Khashoggi in consolato – avrebbe sentito al telefono Mohammed bin Salman almeno quattro volte. Nel caso di Khashoggi, visto il suo passato da consigliere della famiglia reale e il suo presente di critico delle politiche di Mbs, oltre a tappare la bocca a un dissidente era necessario anche far tacere chi poteva sapere troppo.