C’è il Berlinguer bambino sulla spiaggia, quello incalzante in tv, quello «non musone», quello raccontato da Aldo Tortorella e Emanuele Macaluso, cui confida che l’incidente di Sofia (1973) forse è un attentato dei bulgari, e che anche Pajetta ne ha subìto uno simile in Polonia; c’è il buffo Berlinguer-Red Skelton di A southern yankeee, sulla linea di confine fra nordisti e sudisti, impallinato dagli uni e dagli altri. Ma il passaggio-chiave del documentario «Quando c’era Berlinguer», opera prima di Walter Veltroni (autore regista e voce narrante, prodotto da Sky e Palomar, nelle sale dal 27 marzo) lo pronuncia, e come poteva essere diversamente, Jovanotti. Con la morte di Berlinguer, dice, «finisce la parola ‘comunista’, perché in Italia la parola ‘comunista’ è Berlinguer. È una parola che non mi ha mai fatto paura, perché la associo con quella correttezza, con quella faccia, con quelle parole, con quella onestà e quindi continua ad essere nei miei ricordi una parola bella che muore con chi in qualche modo l’ha inventata».

È veltronismo in purezza. Di tutta l’intensa ricostruzione di quell’Italia, è il passaggio che traduce la riflessione che Veltroni ha aperto anni fa («Non sono mai stato comunista»; «Facevamo schifo», titolò il manifesto). Veltroni ci torna su come un luogo del delitto. E il suo Berlinguer, spiega, è un comunista «diverso» da tutti gli altri comunisti di ogni ordine grado e latitudine, anche della propria, conquista – ma non converte – l’autore a 15 anni «perché parlava un linguaggio diverso dagli altri, quasi poetico». Verrebbe da dire un Berlinguer segretario del Pci ma «salvato» dal comunismo.

Veltroni fa anche di meglio, o di peggio a seconda dei gusti, comunque fa se stesso fino in fondo, come in un eterno Lingotto: monta le parole di Jovanotti in sequenza con Pietro Ingrao (fra pochi giorni, 99 anni) e con un commosso Giorgio Napolitano. Non è un caso: per parlare ai 18enni di oggi, «alla loro energia e voglia di sognare e cambiare», Jovanotti ben più di Pasolini può interpretare quell’impasto (pasticcio per antipatizzanti) che tiene insieme la mitizzazione dell’ultimo Pci ma anche la sua coeva definitiva rottamazione.

Primo, però, raccontare Berlinguer alla generazione Renzi, il segretario del Pd che si vanta di non aver mai letto Marx e che coi libri di politica ha iniziato dai discorsi di Kennedy: bene, ma insomma non proprio dai fondamentali. Non è un caso che il documentario si apra con le desolanti risposte dei ragazzi dei licei. Chiedi chi era Berlinguer: «La mafia? Un commissario?», «Un francese?», «Dovrebbe essere un senatore a vita», «Un capo dell’Unione europea della Corea», qualsiasi mostruoso mondo voglia significare.

Il suo Berlinguer, ricostruito nel trentennale della morte con immagini spesso inedite e testimonianze di pregio (fra gli altri la figlia Bianca, Monsignor Bettazzi, l’operaio di Padova Silvio Finesso che lo accompagna sull’ultimo palco, Forlani, Gorbaciov, il caposcorta Alberto Menichelli, Eugenio Scalfari, Sergio Segre, Claudio Signorile, oltre ai citati Macaluso e Tortorella), è un innovatore (vengono ripercorse tutte le tappe, lo strappo, l’eurocomunismo, l’ombrello della Nato, il compromesso storico e la successiva e opposta alternativa, l’austerità e la questione morale). Che alla fine resta tragicamente solo e senza possibilità. Soprattutto ci sono gli anni dalla sua elezione alla segreteria, 1972, fino alle elezioni politiche del 1975, quando il Pci arriva al 34 per cento. Anni in cui, dice Veltroni, «tutto sembrava possibile, vincere un referendum contro la Dc e la Chiesa» (1974, contro la cancellazione del divorzio, bel montaggio della campagna degli artisti per il «no», Gianni Morandi, Nino Manfredi, e uno strepitoso Gigi Proietti che si esibisce in un assolo sul «no»), «governare tante regioni e città, avvertire che tanti italiani non comunisti davano fiducia a quel partito per l’onestà e la competenza che Berlinguer comunicava».

Ma in quel 1975 il Pci vince ma la Dc non perde, il sorpasso non arriva, e Berlinguer si trova di fronte a un’alternativa fra quelli che vede come due ineluttabili e speculari disastri: non far nascere il governo democristiano e riportare l’Italia al voto; oppure farlo nascere e tradire quell’ondata di speranza e di fiducia che un terzo degli italiani gli ha riversato addosso. La scelta è nelle cose, il «compromesso storico» è riflessione già consolidata dai fatti del Cile e scritta su Rinascita, c’è una relazione – filmica ma non solo – fra le immagini di Salvador Allende bombardato alla Moneda che offre la vita al suo popolo e alla sua rivoluzione democratica; e quell’ultimo comizio di Padova, portato a termine senza risparmio, mentre il malore lo bombarda, i compagni sotto il palco – e Tonino Tatò dietro di lui – che lo implorano di fermarsi. Il compromesso storico è il vero obiettivo delle Br che rapiscono e uccidono Aldo Moro, operazione riuscita, ammette Enrico Franceschini, uno dei fondatori. Quel Berlinguer sul palco di Padova ormai è solo, solo con il suo popolo come ai cancelli della Fiat e al referendum contro la scala mobile. L’ultima direzione del partito – anche qui immagini inedite – si era conclusa senza conclusioni, con un segretario di fatto ormai in minoranza. Altre immagini: un leader ormai magro e trasfigurato al congresso del Psi a pochi giorni dalla morte, un implacabile Bettino Craxi che plaude ai fischi dei suoi («Non mi unisco solo perché non so fischiare», dice dal palco, «Fu un errore», commenta amaro Signorile). Siamo agli sgoccioli del «terribile inverno, fatto di disperazione sociale e violenza politica», quella che Berlinguer avrebbe voluto – e dovuto – evitare.

C’è un altro comunismo possibile, in Italia alcuni – radiati dal Pci, ma anche nel Pci stesso – lo dicono da anni, ma per il Berlinguer di Veltroni non c’è. Con la fine di Berlinguer finisce irrimediabilmente una storia, spiega l’autore, e le musiche di Danilo Rea e la bella «Un addio» di Gino Paoli, fanno capitolare alla lacrima anche lo spettatore più scettico, da sinistra e da destra. L’autore torna nei luoghi di quella storia trovandoli – così lui li vede – irrimediabilmente vuoti: piazza San Giovanni, che traboccava il giorno del funerale, la barca al largo di Stintino, il carcere dove un Enrico giovanissimo passa 100 giorni, la sala del Cremlino dove nel ’77 pronuncia con coraggio la professione nel «valore universale della democrazia» al 60esimo dell’Ottobre. Coraggio tardivo, si potrebbe obiettare, ma sarebbe un’altra storia o un altro documentario.

Ma è quantomeno difficile che l’io narrante non si specchi nel narrato, fatte le differenze, nell’innovatore solo e sconfitto. Saltando un paio di partiti, c’era un altro Pd possibile? Anche questa sarebbe un’altra storia. Ieri la giornata di Veltroni, considerato padre spirituale di Renzi ma oggi «terrorizzato dalla fretta bulimica», si chiude alla presentazione del libro dell’arcirvale D’Alema. Dove Renzi ammette di ispirarsi invece a D’Alema, versione 1997.