È arrivato sul palco di con un’ora di ritardo per la chiusura della «campagna elettorale più urlata della storia, e non era facile», un ritardo provvidenziale per riempire una piazza del Popolo all’inizio un po’ svogliata. Prima di scaldare i suoi Matteo Renzi li deve pregare di «non rispondere alle provocazioni», da un lato parte la contestazione dei comitati della casa. «Siamo più forti delle vostre paure, più grandi delle vostre provocazioni, il Pd riparte dalla piazza, con la forza del sorriso». Ma ce l’ha con Grillo, è solo di lui che parla nella scarsa mezz’ora di comizio quando dice che «se il problema di qualcuno è chi prende un voto in più alle europee per vedere chi governa in Italia, il problema è risolto, vinciamo noi», quando rivendica la scelta dell’Expo, quando urla «giù le mani da Berlinguer, sciacquatevi la bocca». Renzi ieri pomeriggio è diventato partitista, va a caccia dell’orgoglio democratico, lui che si è «riconosciuto nel Pd il giorno che ho perso le primarie, perché Bersani non mi ha cacciato con un post sul blog», e infatti riabilita il «noi» bersaniano, «un leader non salverà nessuno». E si voterà pure per le europee, prova a convincere i suoi, ma poi parla del suo governo, del «riformismo con l’anima». E ancora ce l’ha con Grillo, «qualche nostro competitor» quando dice che «qualcuno vuole farci lezioni di onestà», «e intanto sta con i No Tav e con chi prende a botte e a sassate le forze dell’ordine». Un comizio breve, una carica per i suoi. Il premier in questi giorni legge i sondaggi attenzione, molto più di quanto non dimostrino le sue continue raccomandazioni al popolo del Pd perché non si culli nella presunzione di vittoria. I numeri non si possono pubblicare, ma nella sostanza certificano che il partito è sopra il 30 per cento e il M5S lo tallona da vicino, migliorando la performance delle politiche del 2013. Ma è un dato, ammesso che possa essere considerato tale, in termini percentuali. I voti assoluti sono consegnati all’affluenza, che resterà il partito più grande e secondo le previsioni sfiora il (drammatico) 40 per cento. Il segretario-premier teme nel suo elettorato l’effetto psicologico della vittoria in tasca, quello che ha trafitto Bersani nell’ultimo miglio della campagna elettorale del febbraio 2013. È un pericolo da cui molti i dirigenti del Pd, a qualsiasi parrocchia appartengano, lo mettono in guardia. Tre giorni fa a San Miniato Enrico Letta, ormai tornato in campo («questa nostra storia prosegue», ha detto), ha ricordato l’ultima settimana prima del voto di febbraio: «Il 5 per cento di voti persi, scomparsi dalle urne e passati al Movimento 5 stelle. La storia recente del paese è tutta condizionata da quei 5 giorni e da quel 5 per cento. È scattato il meccanismo di sicurezza, eravamo sicuri di vincere le elezioni e quindi una parte degli elettori anche nostri si è detta: voglio dare un segnale sulla trasparenza e sui costi della politica». Risultato: «Una catastrofe». Per questo da qualche giorno Renzi ha cambiato faccia e dal palco si mostra meno bullo e baldanzoso del solito. Non ha perso la certezza della vittoria. I numeri – benché quelli presunti dei sondaggi – dicono che supererà la ‘soglia’ psicologica del risultato di Bersani, quel 25 per cento che ha piazzato i dem subito dietro – ma comunque dietro – al M5S alle politiche. Il risultato veltroniano del 2008, il 33,2, sarebbe un successo smagliante. Percentuale, però. Altro sarebbe ‘pesare’ il numero reale dei voti. E su questo l’ultima parola spetterà al Generale Astensionismo. Ma il suo vero dilemma è che se l’improbabile sconfitta sarebbe «una catastrofe», anche la vittoria rischia di essere un risultato inservibile. Con un Grillo tonificato e un Pdl sotto la soglia del 20 per cento, la tenuta della legislatura sarebbe a prova di bomba ma tutta l’ipotesi di governo rischia di infilarsi nella famosa ‘palude’, stavolta quella vera e non quella evocata per eludere le critiche ai suoi provvedimenti. Sulla riforma del senato Berlusconi fa promesse intermittenti. L’Italicum di fatto è già saltato, non tanto per le richieste di rimaneggiamento da parte dei «riformisti» del Pd quanto perché la legge ormai non serve più a Berlusconi, il partner del patto del Nazareno. Altre riforme sono un periodo ipotetico dell’irrealtà. Come il jobs act, core business della riforma del mondo del lavoro: mettere mano agli ammortizzatori sociali presuppone un costo che difficilmente il governo può coprire. In più il semestre di presidenza della Ue rischia di partire già azzoppato. Persino in caso di vittoria dei socialisti, tutt’altro che certa, un’eventuale concorso del Ppe all’elezione di Schulz indebolirà la forza di Renzi e del Pd, anche nel caso di laureasse prima forza del Pse. Su tutto questo conta l’umore di Angela Merkel, la cancelliera socia di maggioranza dell’alleanza tedesca con l’Spd. «Le europee non sono un referendum sul governo», «anche se vado sotto il 30 per cento non lascio», ha spiegato ieri Renzi. Invece «se bloccano le riforme, lascio», ha avvertito. Ma le fantasie di fuga verso un voto anticipato sono una pistola scarica, a meno che Renzi non si converta al proporzionale vigente in forza della sentenza della Consulta. In tutto questo resta in ballo l’elezione di un nuovo presidente della Repubblica, che avrebbe bisogno di una conduzione solida per cancellare lo spettro dei 101. Il partito ormai è tutto con Renzi (al netto delle sofferenze dei pochi civatiani). Le sinistre in questo mese di campagna elettorale hanno scommesso sulla vittoria di Renzi e si sono silenziate per non disturbare le sue manovre propagandistiche. Per sancire il ricompattamento, la sinistra riformista potrebbe entrare in segreteria e ai giovani turchi potrebbe andare la presidenza dell’assemblea, il posto che fu di Cuperlo. Ma le manovre interne contano. «L’esprit renziano», come lo definisce il sito il Retroscena, rischia una battuta d’arresto. E il premier, anche vincitore, costretto a restare in sella, rischia di infilarsi in un vicolo cieco.