Le manifestazioni e le proteste della popolazione contro il colpo di stato con cui il primo febbraio 2021 la Birmania è caduta nelle mani della giunta militare e la violenta repressione che ne è seguita, costituiscono un filo rosso che collega alcuni dei lavori estremo orientali presentati quest’anno a Berlino.

Everything Will Be OK è il titolo del nuovo lavoro diretto da Rithy Panh, l’autore cambogiano che soprattutto attraverso il cinema documentario come S21: La macchina di morte dei Khmer rossi (2003) o L’immagine mancante (2013), ha saputo raccontare del regime totalitario e delle indicibili violenze in cui è cresciuto e che hanno caratterizzato la storia del suo paese durante il regno del terrore dei Khmer rossi. Everything Will Be OK è uno slogan visto in una maglietta di uno dei giovanissimi protestanti uccisi durante la repressione birmana.

Rithy Panh parte da qui per ragionare sul totalitarismo e sulla democrazia attraverso un lavoro presentato in competizione che si preannuncia tanto sperimentale quanto politico, realizzato attraverso figurine animate, in questo senso un po’ sembra ricalcare quanto fatto con L’immagine mancante, immagina un mondo dove gli animali sono saliti al potere. Le domande che pone la sinossi del film sono tutt’altro che banali: gli animali si comporterebbero come gli umani? Farebbero errori simili, lotterebbero per il potere, governerebbero con il terrore e divorerebbero tutto? In che modo e che cosa rappresenterebbero nelle loro opere d’arte? e il pianeta sarebbe più in pace?

Il secondo lavoro che rimanda a quanto sta succedendo in Birmania, in maniera molto più diretta e coinvolta, è Myanmar Diaries, opera presentata in Panorama e realizzata da un gruppo di cineasti anonimi, il Myanmar Film Collective, che dal giorno del colpo di stato di circa un anno fa ha continuato a filmare e diffondere al di fuori dal paese quello che sta succedendo in Birmania. Tutto questo materiale, cortometraggi e reportage o semplici ma vitali atti di testimonianza, sono stati raccolti e montati assieme in quello che si preannuncia essere un importante atto di resistenza in forma filmica.

The Novelist’s Film è il nuovo lavoro diretto da Hong Sang-soo che ritorna per il terzo anno consecutivo in competizione a Berlino, dove nel 2020 vinse il Leone d’Argento per The Woman Who Ran e l’anno successivo il riconoscimento come miglior sceneggiatura con Introduction. Il regista sud coreano sembra continuare la sua poetica minimalista, incentrata sul gioco del destino e imperniata su figure femminili anche in questo suo nuovo lungometraggio, storia di una scrittrice che visita un amico che gestisce una libreria e che casualmente incontra un regista e sua moglie.

L’ultimo film estremo orientale presentato in competizione sarà Return to Dust del cinese Ruijin Li, storia d’amore ambientata nelle campagne nord occidentali della Cina dove il regista ha spesso realizzato i suoi lavori, fin dal primo The Summer Solstice del 2007.

Return to Dust è il sesto lungometraggio diretto da Li, che ritorna a Berlino dalla porta principale dopo aver partecipato nella sezione Generation all’edizione del 2015 con River Road, film nomadico con protagonisti due membri del gruppo etnico yugur, e lavoro che lo lanciò a livello internazionale. Il regista, come molti artisti della sua generazione, è infatti nato nel 1983, è molto interessato a una delle problematiche più sentite nella Cina contemporanea e cioè al rapporto fra centri urbani e zone rurali del vasto paese asiatico, con tutte le differenze culturali e sociali, e naturalmente economiche, che questo scarto porta con sé.

Spesso quindi nei suoi lavori si riscontra un’attenzione verso tematiche legate ai cicli naturali, e al lavoro e allo stile di vita di chi lavora la terra, attitudine che ha ereditato dalla contea di Gaotai, dove è nato e cresciuto. Il regista sembra aver trovato nel cinema il mezzo migliore per esprimersi, comincia infatti giovanissimo come pittore e musicista, tanto che in alcune sue dichiarazioni ha paragonato la settima arte al lavoro contadino, entrambi hanno infatti a che fare con il tempo e con l’arte di aspettare i frutti del proprio lavoro.

Per gli amanti del cinema giapponese degli anni sessanta, è un’occasione da non perdere la riproposizione di Kawaita Hana, Pale Flower, di Masahiro Shinoda del 1964, nella sezione classici, uno dei lungometraggi che meglio hanno saputo catturare lo spirito del nuovo cinema nipponico del tempo.