Contrariamente a quanto tramandato da una certa vulgata critica, Luis García Berlanga non è mai stato un uomo di sinistra. Il comunista Juan Antonio Bardem, che neppure dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica abiurò gli assiomi promossi in seno all’apparato piramidale del Partito comunista spagnolo (Pce), era solito provocarlo, tra il serio e il faceto: «Luis dovrebbe appartenere a un partito denominato Partito Borghese Anarchico Indipendente».

Berlanga è stato l’artefice di un percorso artistico e vitale tutt’altro che circoscrivibile, disseminato di deviazioni improvvise e traumatiche lacerazioni. Pare che in gioventù avesse guardato con simpatia alla Falange (anche solo per ribellarsi ai dettami paterni: era figlio di un noto politico del bando repubblicano) e si arruolò nelle fila della División Azul per combattere contro i più acerrimi avversari dell’Asse (sulle reali motivazioni che lo indussero ad arruolarsi le testimonianze si confondono: lo fece per salvare il padre, antifascista di vecchia data, dalla condanna alla pena capitale? Per mitigare gli strascichi di una cocente delusione amorosa? O semplicemente perché mosso da sinceri – quantunque poi disconosciuti – ardori filofalangisti?).

Tornato nella Spagna dell’autarchia franchista, cadde preda di un feroce disincanto, germinato nei rigidi climi delle steppe russe: «Quando tornai dalla División Azul ero già completamente guarito. Quando tornai, ero ciò che sono ora al 100%» confidò al critico Antonio Castro nel 1974. Rinato poco più che ventenne dalle proprie ceneri nel segno di un fervente antifranchismo, ignorò il richiamo dei partiti clandestini e decise di mantenersi al margine di ogni schieramento collettivo (Juan Antonio Bardem e Ricardo Muñoz Suay, suoi compagni di studi presso l’Instituto de Investigaciones y Experiencias Cinematográficas, cercarono di avvicinarlo alla causa del Pce, con scarsissimi risultati).

Eppure – Ferreri e Buñuel a parte – non c’è stato nella Spagna del dopoguerra un cineasta che abbia saputo sfidare con pari esuberanza l’assolutismo della censura, sbertucciare i ricattatori monologhi scanditi dai pulpiti istituzionali, calamitare le nevrosi di un apparato burocratico genuflesso alla più cadaverica delle triadi dogmatiche: Dio-Patria-Famiglia. Nichilista, iconoclasta, anticlericale, erotomane, ebbe a confessare che l’80% dei progetti da lui inoltrati alla commissione di censura venne perentoriamente cestinato (fra questi ci basti citare A mi querida mamá en el día de su santo, sceneggiatura scritta con il fido Rafael Azcona, poi ceduta a Luciano Salce, e un’acidissima satira sulla guerra civile che riuscì a vedere la luce solo dieci anni dopo la morte di Franco, La vaquilla). Nel 1957 Los jueves, milagro (da noi Arrivederci, Dimas), farsa corrosa da pirotecnici umori anticlericali, fu trasformata dagli organi amministrativi in una favola edificante che ribaltava la tesi ideologica di partenza: l’ateismo professato nella prima versione del progetto, dove un manipolo di cialtroni inscenava falsi miracoli per rimpinguare le casse di una stazione termale sull’orlo del fallimento, veniva notevolmente smorzato in una seconda stesura – riscritta sotto l’occhio vigile del reverendo-censore Garau – che si incaricava di dipanare ogni possibile dubbio sull’esistenza di Dio e sulla misericordiosa operosità dei santi.

Quasi tutti i film realizzati da Berlanga nel periodo della dittatura, da Esa pareja feliz (1951, codiretto con Bardem) e Benvenuto Mr. Marshall! (1953) a ¡Vivan los novios! (1969) e Life Size (1973), subirono, direttamente o indirettamente, con maggiore o minore accanimento, l’oltraggio del diktat censorio. Life Size, la staffilata forse più ardimentosa, grido di dolore alienato, represso in uno sberleffo situazionista, poté uscire in Spagna – comunque in sordina – solo ventisei mesi dopo la tumulazione del Caudillo, nel gennaio 1978, anno della Costituzione. Inascoltato, quando non del tutto travisato (come spesso accade agli spiriti più sibillini), Berlanga postulava nel film un fitto dialogo a distanza con l’episodio conclusivo di Marcia nuziale (Marco Ferreri, 1965), che negli scenari di un futuro imprecisato si affrettava a preconizzare l’affermazione della plastica sulla carne, del simulacro sull’autentico, dell’inumano sull’umano. Fuor di retorica, oltre la faciloneria degli slogan e della sociologia spicciola, l’apocalisse degli affetti e del rapporto tra i sessi. Un dialogo che, in pieni anni Settanta, Berlanga scelse di declinare deliberatamente al presente (eclissando la catarsi del protagonista, l’impudico e trionfale Michel Piccoli, in un finale alla Jules et Jim).

Due film chiave
I film più acclamati restano tuttavia quelli realizzati nei primi anni Sessanta, periodo che apre la Spagna agli effetti del Plan de Estabilización e all’insediamento dell’Opus Dei nei palazzi del potere. Plácido (1961) e La ballata del boia (1963) costituiscono due dei più straordinari monumenti cinematografici innalzati sulle secolari fondamenta dell’humor negro, spiritaccio che serpeggia tanto nel Lazarillo de Tormes quanto nel Guzmán de Alfarache, in Cervantes e Quevedo, Valle-Inclán e Arniches, Fernández Flórez e Jardiel Poncela. Nel primo dei due film, germoglio della fruttuosa collaborazione con Azcona, Berlanga punta il dito contro il mercato degli interessi privati che gravitano intorno alle «iniziative benefiche», la falsa coscienza delle classi agiate, quell’altruismo di facciata che è solito ripiegare in un famelico opportunismo. La critica alla borghesia di provincia, sottomessa alle consegne ideologiche del cattofascismo, si allarga in spire concentriche da Manresa (cittadina dell’entroterra catalano dove il film è stato in parte girato) fino a raggiungere e travolgere idealmente i centri nevralgici del potere madrileno. I poveri sono sviliti a esangui marionette, manipolati nei corpi, nelle menti e negli affetti: funzioni di un disegno spettacolare che a sipario calato, venute meno le ragioni della «rappresentazione», si premurerà di garantirli ancora una volta alle cloache della cosiddetta società civile.

Plácido è anche il primo film di Berlanga che si relaziona con il topos della morte, elemento narrativo che guadagnerà un’indicativa centralità nella produzione successiva, a partire proprio da La ballata del boia. Coadiuvato da Azcona e Flaiano, l’autore valenciano precipita il bisturi nelle viscere di un consorzio sociale anestetizzato dal miraggio della modernità (una modernità dai risvolti quantomeno ambigui, certo più propagandata che reale), anticipando profeticamente la sentenza di Pasolini secondo cui per i poveri «essere morti o essere vivi è la stessa cosa». Nel dramma del becchino Nino Manfredi, costretto a ereditare il mestiere di boia per accedere ai benefici legislativi volti ad assicurargli una casa, si riflettono le violente contraddizioni di un’intera nazione, stretta fra le luccicanti frenesie del «desarrollismo» (siamo negli anni in cui Fraga Iribarne svende le coste al turismo estero, crogiolandosi nello slogan «Spain is different») e un dispotismo oscurantista dagli impulsi paranoici.

Saggia irriverenza
Quattro mesi dopo la fucilazione del militante comunista Julián Grimau, nei giorni che precedettero l’anteprima veneziana de La ballata del boia, il regime condannava alla garrota gli anarchici Francisco Granados e Joaquín Delgado, contribuendo indirettamente ad acutizzare il sottotesto politico del film. Berlanga, non senza una certa chiaroveggenza, aveva scagliato un fascio di luce accecante sul bubbone del potere. Un’impertinenza, la sua, che lo avrebbe accompagnato per molti anni ancora, anche dopo il tramonto della dittatura (si vedano ad esempio l’irresistibile saga dei Leguineche [La escopeta nacional, 1978; Patrimonio nacional, 1980; Nacional III, 1982] e il bellissimo testamento dada-libertario sul passaggio di secolo, París-Tombuctú, 1999). Sempre in bilico, come da magistero goyesco, tra spinte deformanti e rigore stilizzante.