Avendo dedicato tutta la vita a sintonizzarsi con la quintessenza del tempo, Henri Bergson rivolge il suo sguardo all’indietro e prova a tracciarne la storia; si accorge, dunque, che da Platone sino a Kant, il tempo è stato trattato come un’idea.

Nelle diciannove lezioni tenute al Collège de France tra il 1902 e il 1903, la Storia dell’idea di tempo raccontata da Henri Bergson (Mimesis, «Canone Minore», traduzione di Simone Guidi, prefazione di Rocco Ronchi, postfazione di Camille Riquier, pp. 433, € 25,00) è la parabola di un tempo ideale, astratto, ridotto a mera rappresentazione che, con il tempo reale ha poco a che fare. Nell’evoluzione del pensiero filosofico sul tempo, Bergson rintraccia una continuità che si esprime nella sistematica riduzione del tempo reale alla sua immagine sbiadita, numerica.

Presupposti mendaci

La storia dell’idea di tempo, cioè, è la storia di una negazione in cui, ad essere negata è la vita del tempo, la sua efficacia. Sin dal Saggio sui dati immediati della coscienza, Bergson ha chiamato «durata» questo tempo pulsante e nient’affatto cronologico che la metafisica occidentale ha rimosso – spiega – proprio perché vivente e non lineare. La durata, in effetti, è un tempo strano: un tempo che si arrotola su sé stesso lasciandosi cogliere solo da una sorta di «istinto intellettuale». Con decisione e lungimiranza, Bergson lo contrappone al tempo volgare della cattiva filosofia e della cattiva scienza, persino einsteniana, convinto che ogni sapere o sguardo sul mondo da esso derivi e in esso debba installarsi qualora desideri cogliere adeguatamente il reale.

La metafisica, sia antica che moderna, ha preferito accedere al tempo tramite altre porte, senza considerare il tempo a partire dal tempo; ma una riflessione sul tempo mediata da ciò che tempo non è, sia esso l’eterno apollineo o lo spazio euclideo, è una riflessione mendace: il tempo pensato relativamente ad altro è un tempo rimosso in altro, e l’invenzione greca della «precisione», per Bergson, è l’invenzione di un metodo, o di una civiltà, in cui il tempo vivente non può essere compreso se non come disagio, male radicale.

Il tempo identico al movimento e sinonimo di divenire è lo scandalo del cosmo greco: ciò che, data la perfezione e l’autosufficienza degli intelligibili, vaga nel mondo sublunare come un’ombra priva di ragione. Perché, dopotutto, l’eternità dei principi ne avrebbe bisogno? Unde tempus?
Zenone è stato il primo ad aver tentato la giustificazione della durata al fine di risolverne le pericolose contraddizioni e Bergson lo riconosce quando, nella quinta di queste lezioni trascritte sollecitamente da due allievi di Charles Péguy, fa del suo gesto, la misura del movimento, il gesto inaugurale della metafisica occidentale. Seguendo Parmenide, Zenone stabilisce che una cosa è o non è, e ne conclude che «non vi è divenire e nulla diviene». Perciò, fintanto che «essere» significa «essere esprimibile», il divenire non è né pensabile né, perciò, esistente. Il divenire «è lo stato di una cosa che è questo e quello contemporaneamente» e il principio di non contraddizione stabilisce che la copresenza dei contraddittori in seno a un unico fenomeno non è nulla di pensabile.

Tra la moneta e l’oro
Per Bergson, tuttavia, il fisico non è necessariamente una «corruzione del logico» e i Greci, a suo parere, hanno il torto di aver dato torto alle cose per dar ragione al linguaggio. Tra i due modi di conoscere una cosa, i Greci hanno scelto il peggiore: un modo relativo che consiste nel girarle attorno senza mai riuscire ad afferrarla. I Greci non entrano dentro la Cosa: la traducono. E la traducono in concetti e formule incapaci, per loro natura, di esprimerla in quanto tale. Eppure, procedendo dai concetti alle cose anziché da queste a quelli, hanno agito conformemente a un principio che, per Bergson, è il principio di tutta la metafisica: nell’immobile – i concetti sono fissi – c’è qualcosa in più che nel mobile; nell’essere – le idee sono tutto ciò che è – vi è molto più che nel divenire.

Tanto la matematica platonica della quiete, quanto quella galileiana del movimento, in altre parole, hanno privato la realtà di ogni sussistenza che non fosse quella del simbolo, ma la grande intuizione di Bergson è che il sempiterno principio della metafisica è l’espressione di un’infermità dell’umana intelligenza prima di essere il prodotto di un giudizio morale.

Abituata a collocarsi nell’immobilità, dove trova un punto d’appoggio per le sue pratiche finalizzate alla sopravvivenza, l’intelligenza è infatti strutturalmente incapace di pensare il divenire in sé stesso. La fabbricazione di segni di cui si serve per orientarsi nel mondo opera sul participio passato anziché sul participio presente e, di conseguenza, la confusione tra l’ordine artificiale dell’esposizione e l’ordine naturale della creazione è inevitabile.
Contrariamente all’intuizione, l’intelligenza guarda eternamente indietro restando vittima di un’ideologia, l’illusione retrospettiva, che Bergson giudica il peccato intellettualista per eccellenza. E nondimeno, tardiva per natura, essa non può che procedere pervertendo la natura del reale.

L’infinita variazione di tutte le cose, per l’intelligenza, sarà sempre il segno manifesto di un’invarianza segreta e il mondo di quaggiù null’altro che il sintomo di una malattia dell’iperuranio. Il tempo, dice Platone nel Timeo, è l’immagine mobile, cioè imperfetta, dell’eternità, e malgrado alcune preziose intuizioni di Plotino e Leibniz, questa definizione è stata accettata sino a Kant.

Lo spirito, osserva Bergson, avrebbe potuto deviare in seguito alla scoperta dell’«istante qualunque» e della «sufficienza del movimento», ma non l’ha fatto. E non lo ha fatto perché l’idea cinematografica del tempo non è storica ma naturale. Il 6 gennaio 1903 Bergson la commenta servendosi di un’immagine alchemico-economica che, a suo dire, funziona come l’immagine mediatrice della metafisica di tutti i tempi: tra il tempo e l’eterno, il corpo e l’anima, il mondo e Dio, il divenire e l’essere c’è lo stesso rapporto che esiste tra la vile moneta contante e il sublime pezzo d’oro. E quanto denaro, si chiede Bergson, servirà per eguagliare il secondo termine dell’equazione? La risposta della metafisica classica è: una quantità infinita, infinita privativamente. Quella offerta dalla metafisica della durata creatrice è, invece, una quantità qualunque. In ogni segno, difatti, la durata si esprime, benché sempre in forma invertita. Tutto sta, allora, nel non scambiare il primo con la seconda o, come dice Bergson, nell’intuire che ogni moneta è viva in quanto immagine immobile di un movimento assoluto.