Dopo la visita di domenica a Betlemme nel segno della politica e della diplomazia, testimoniato dall’invito ad andare a Roma a pregare per la pace rivolto al presidente palestinese Abu Mazen e al capo di stato israeliano Shimon Peres, è stata Israele l’ultima tappa del viaggio di Terra Santa di papa Francesco. Una giornata, quella di ieri, con importanti risvolti religiosi – in particolare per lo sviluppo dei rapporti tra cattolici ed ebrei – ma ugualmente caratterizzata da elementi politici e diplomatici di un certo rilievo. L’attenzione tuttavia si è concentrata sulle visite del pontefice al Muro del Pianto e al memoriale dell’Olocausto, “Yad Vashem”, di Gerusalemme. «Forse nemmeno il Padre poteva immaginare una tale caduta, un tale abisso!…Signore, salvaci da questa mostruosità. Dacci la grazia di vergognarci di ciò che, come uomini, siamo stati capaci di fare», ha affermato, visibilmente commosso, il papa che ha incontrato alcuni sopravvissuti allo sterminio nazista. «Nunca màs!! Nunca màs!!» (Mai più), ha scritto in un biglietto lasciato al Memoriale dell’Olocausto.

Poco prima Bergoglio aveva fatto un’altra visita, con un chiaro intento politico. Al Monte Herzl ha prima deposto una corona di fiori sulla Tomba di Theodor Herzl, il padre del movimento sionista secondo il protocollo ufficiale che Israele ha introdotto per le visite dei capi di stato e di governo. Poi, fuori programma, si è recato a pregare alla vicina stele che ricorda le vittime israeliane degli attentati. Un gesto richiesto, pare, dal premier israeliano Netanyahu, ufficialmente per quanto è avvenuto nel fine settimana in Belgio dove quattro persone sono morte in un attacco armato a un museo ebraico. Di fatto per compensare un precedente “fuori programma”, ossia la preghiera che domenica il papa aveva recitato, tra gli applausi dei palestinesi, davanti a uno dei lastroni di cemento armato del Muro di separazione che Israele ha costruito intorno a Betlemme e nel resto della Cisgiordania palestinese. Una preghiera accolta con forte disappunto in casa israeliana, come ha confermato il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi: «Ho sentito di reazioni negative in Israele alla scelta del papa di fermarsi a pregare davanti al muro di separazione. Non sono sorpreso. Ma bisogna capire il senso positivo di questo gesto, come quello di andare stamane al Memoriale delle vittime del terrorismo». In poche parole al papa è stato chiesto di compensare il gesto fatto a Betlemme. Bergoglio ha accettato ma questo non gli ha risparmiato le “spiegazioni” di Netanyahu quando i due si sono incontrati al Centro Notre Dame. «Ho spiegato al papa che la costruzione della barriera di sicurezza (il muro, ndr) ha evitato molte altre vittime che il terrorismo palestinese aveva in programma», ha scritto il premier in un tweet. Netanyahu invece non ha “spiegato” al capo della Chiesa di Roma perchè il muro segue un percorso chiaramente politico insinuandosi all’interno del territorio palestinese occupato.

Il programma del terzo e ultimo giorno in Terra Santa è stato molto intenso. Alla chiesa dei Getsemani, il papa ha rivolto un pensiero anche ai cristiani che vivono a Gerusalemme. «Li ricordo con affetto e prego per loro, conoscendo bene le difficoltà che vivono nella loro città», ha detto Bergoglio senza però andare nella profondità di problemi che si trascinano di tempo. Dietro le quinte di questo viaggio in Terra Santa, salutato con entusiasmo e grandi parole dai vertici della Chiesa a Roma e a Gerusalemme, non sono rare le voci cristiane che non condividono la linea del “politicamente corretto” scelta dal papa e dai suoi consiglieri. In un documento diffuso prima della visita, decine di religiosi avevano chiesto al pontefice di far sentire la sua voce sulle difficoltà di movimento che i palestinesi cristiani e non pochi sacerdoti incontrano a causa delle restrizioni israeliane. Il papa ha rivolto appelli alla tutela dei bambini vittime di conflitti ma non ha fatto riferimento ai minori palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Eppure su questo punto era intervenuto con forza la scorsa settimana il centro Sabeel di Gerusalemme, espressione della Teologia della Liberazione tra i palestinesi cristiani.

«Quando si parla di questa regione, della Palestina e del conflitto occorre mettere le cose in chiaro – ci diceva ieri l’archimandrita Abdallah Juliu, autorevole esponente della Chiesa melkita – Il problema è che il popolo palestinese, pur avendo accettato per amore della pace di proclamare un suo Stato indipendente solo in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme, lo Stato di Israele continua ad occupare da decenni questi territori. E’ l’occupazione israeliana il problema vero e chi parla di conflitto tra religioni non fa altro che sviare l’attenzione. Questo non è un conflitto tra Cristianesimo, Ebraismo e Islam». L’archimandrita non sminuisce l’importanza della visita del papa al campo profughi di Dheisheh (Betlemme), dove ha invitato i bambini a «guardare avanti» e non solo al passato (la Nakba?). Allo stesso tempo sottolinea che la questione dei profughi continua, anche da parte del Vaticano, a non essere affrontata nei termini adeguati alla gravità del problema. «Abbiamo milioni di rifugiati palestinesi in Siria, Libano e Giordania – spiega il religioso – che non possono rientrare nello loro terra e che sono privati dei loro diritti, la questione va affrontata in questa ampia dimensione e non nell’ambito ristretto del campo di Dheisheh”.

Padre Abdallah Juliu si augura che la visita del papa contribuisca a consolidare l’identità araba e palestinese dei cristiani locali, indebolita, dice, dalle politiche che svolgono Israele e i paesi occidentali. «Questa identità deve essere recuperata in modo che i cristiani locali e le chiese possano dare il loro contributo alla giustizia, alla pace e alla fine dell’occupazione israeliana. Siamo un unico popolo, cristiani e musulmani, ancora sotto occupazione