È davvero un testo di ampio respiro questa allocuzione post-sinodale. Si può forse dire che il papa ha scelto di alzare il livello di una discussione che sembrava essersi incartata in tecnicismi che poco interessano al suo «popolo». Lo ha fatto con un lungo documento che accoglie i risultati dell’assemblea dei vescovi, confermando così anche la fiducia che intende accordare all’episcopato dopo una lunga stagione di (ri)accentramento del potere papale.

Sull’unico punto sul quale il Sinodo aveva lasciato uno spazio di sviluppo, l’accesso ai sacramenti per i divorziati risposati, il papa ha scelto di siglare un passaggio decisivo per gli equilibri interni alla Chiesa. Sulla questione, del resto, si erano addensate le aspettative di tutti, ivi comprese di coloro che speravano di vederlo «cadere». Non c’è dubbio poi che la decisione di reintegrare questi «peccatori» abbia anche un grande valore religioso e culturale. Sul primo aspetto sono importanti le parole con le quali il papa ha fatto «autocritica» per il modo in cui sono state «presentate le convinzioni cristiane» e, soprattutto, per come sono state «trattate le persone». In un’ottica di lungo periodo la decisione ricollega la Chiesa al cristianesimo delle origini e a quel Canone 8 del Concilio di Nicea che il teologo Giovanni Cereti aveva segnalato a suo tempo allo stesso papa. Infine, non è possibile sottovalutare le conseguenze simbolico-culturali di questa riammissione per la società italiana del tempo presente. Anche per responsabilità diretta della Chiesa, ha pesato a lungo una moralità pubblica che ha costretto ad attendere il 1974 per ratificare definitivamente il divorzio come un diritto. Oggi anche il cattolicesimo romano sembra finalmente voler prendere atto della trasformazione attrezzandosi pastoralmente per rispondere alle domande dei propri fedeli.

Papa Francesco dichiara di guardare «alla realtà della famiglia di oggi in tutta la sua complessità» riconoscendo, per esempio, che sono spesso le condizioni economico-materiali ad impedire ai giovani di vivere una vita di coppia stabile e che la risposta va ricercata nella politica sociale dei governi. Denuncia i traumi familiari prodotti dalle migrazioni forzate e afferma che anche nelle unioni «irregolari» si possono scorgere elementi positivi. Nello stesso tempo, nell’analisi della crisi dell’istituto familiare tornano le categorie utilizzate dai predecessori per descrivere una presunta deriva antropologica. Si parla di «individualismo esasperato», di «affettività narcisistica» e si mobilita tutta una serie di categorie di giudizio che, come minimo, manifestano una scarsa propensione a riflettere criticamente sui processi di autodeterminazione, liberazione sessuale e di riappropriazione dei corpi.

Il papa, collocandosi nella scia del Concilio Vaticano II, non ha dubbi nel criticare l’atteggiamento di coloro che hanno valorizzato l’«aspetto procreativo» del matrimonio a discapito di quello «unitivo», ma sul piano della bioetica non intende marcare una discontinuità. Non c’è nessun tentativo di confrontarsi con la questione del gender, ancora una volta banalizzata e ricondotta a un presunto tentativo ideologico (non si sa bene da parte di chi) di «imporsi come un pensiero unico che determini anche l’educazione dei bambini». Di fronte alle domande degli omosessuali, che chiedono di andare oltre la politica della «tolleranza», e ai problemi posti dallo sviluppo delle biotecnologie prevale la chiusura. Bergoglio si muove evidentemente in uno spazio limitato dalla resistenza che si è manifestata al Sinodo. Tuttavia, è stato lo stesso pontefice in più occasioni a ribadire i «limiti» che la sua proposta di aggiornamento non intende valicare. Ancora una volta, dunque, Francesco ha segnato un cambiamento importante che sembra incidere soprattutto sulla rappresentazione e sulla pastorale della Chiesa attraverso lo strumento del «discernimento». Manca ancora però una revisione profonda della dottrina che risponda alle attese del suo «popolo» realizzando compiutamente l’opera di riforma.