Bergamo è da sempre considerata terra bianca, di tradizioni conservatrici, influenzata da una forte presenza clericale. Ma, a suo modo, è una città, per certi versi, anomala. Come per reazione a questa chiusura ha infatti prodotto, nella storia, fenomeni di segno opposto. Malgrado nei secoli della dominazione veneziana Bergamo fosse la terra più fedele alle tradizioni della Serenissima, la prima repubblica napoleonica, prima della Repubblica Cisalpina, fu proprio la Repubblica Bergamasca.

Come è noto fu poi la terra bergamasca a fornire il maggior numero di partecipanti alla spedizione dei Mille di Garibaldi, tanto che alla città fu conferito il titolo di «Città dei Mille». Anche in seguito la terra bergamasca dimostrerà la propria capacità di reagire al prevalente clima tradizionalista. Con la seconda metà degli anni Sessanta sorgono importanti fenomeni politici e sociali nell’ambito del mondo studentesco e operaio.

Poi, con la radiazione del gruppo del Manifesto dal Partito comunista italiano, dalla sonnacchiosa federazione di Bergamo se ne andrà buona parte del gruppo dirigente, con il segretario provinciale e unico deputato, Eliseo Milani. La reazione alla cappa perbenista ha peraltro prodotto anche fenomeni negativi: basti dire che a Bergamo, nel periodo dei cosiddetti «anni di piombo», si riscontrarono forti presenze di organizzazioni terroristiche e, in particolare, di Prima linea.

In questo contesto attutito, può accadere che un giovane, come si dice, «di buona famiglia», con un buon lavoro, una moglie e due figli adolescenti, possa decidere di partire per la Siria a combattere il cosiddetto Stato islamico a fianco del popolo curdo. Una scelta dalla parte giusta, certo, ma forse un po’ estrema, difficile da spiegare, anche se oggi in molti vi si cimentano.

Giovanni Francesco Asperti era figlio di Piero Asperti, storico compagno del Manifesto e poi del Pdup, e della sorella di Giuseppe Chiarante, più volte parlamentare comunista. Iniziato alla politica nella Democrazia cristiana bergamasca (era stato anche presidente dell’Azione cattolica), Piero Asperti, con Lucio Magri, Giuseppe Chiarante, Carlo Leidi, costituì presto un gruppo di opposizione interno al partito, che poi abbandonò per aderire al partito comunista.

Giovanni Francesco Asperti (Hîwa Bosco)

L’occasione fu data da un forte conflitto sindacale in corso presso la Dalmine, nell’ambito del quale, con Eliseo Milani, venne convocata la prima conferenza operaia comunista, centrata sull’analisi delle innovazioni intervenute nell’organizzazione del lavoro. Cosa che indusse molti operai della fabbrica ad aderire al Pci. Con la radiazione del Manifesto da parte del Pci, Magri, Leidi e Asperti rappresenteranno un nucleo portante del nuovo movimento.

Piero Asperti faceva il medico presso il Centro provinciale antitubercolare. Ma anche in quel campo la politica era la sua ispirazione. Anzitutto la scelta della medicina pubblica. Era quello che si può definire, nella tradizione gramsciana, l’intellettuale «organico alla classe operaia». Era convinto non solo della insufficienza, ma anche della funzione «classista» di un sapere scientifico separato dalle condizioni materiali di vita degli uomini e delle donne.

Da qui, il suo forte protagonismo nel campo della medicina del lavoro, la sua direzione della Commissione Salute del Pdup, il suo lavoro come medico dell’Inca (il patronato della Cgil) e al dispensario di Ponte San Pietro, lo straordinario impegno nella inchiesta sulle morti per tumore alla vescica fra i lavoratori della Sbic di Seriate.

Lo ricordo nel Pdup come uno dei dirigenti più autorevoli, per quanto un po’, per così dire, «ruvido». Non parlava spesso, ma non faceva mai, come altri, interventi prolissi o inconcludenti. Insomma, quando parlava lo si ascoltava. In silenzio. Quando mi sono iscritto al Pdup, giovane procuratore legale, non sapevo come mi avrebbero accolto, figlio di un ex sindaco democristiano. Qualche diffidenza in fondo me la potevo aspettare. Invece non ci fu da parte di nessuno. E Piero, che faceva parte del gruppo degli «anziani», con Carlo Leidi, Giuseppe Taino, Alberto Paganoni, mi accolse subito con simpatia. Mi fece sentire «a casa». Ho poi sempre ricordato questo suo atteggiamento amichevole nei miei confronti.

Anche in anni successivi, dopo la confluenza del Pdup nel Pci, abbiamo avuto occasione di rivederci. Quando, con altri compagni di avventura, fondammo un giornaletto chiamato «Settegiorni a Bergamo e altrove» e girammo tra le conoscenze sensibili per chiedere sostegno finanziario, Piero fu subito convinto dell’impresa e contribuì generosamente. Nel 2014, a dieci anni dalla morte, il comune di Ponteranica, dove ha sempre vissuto, gli ha dedicato una piazza.

Non si può dire fosse un carattere mite; anzi, era piuttosto un tipo sanguigno. Tuttavia credo che difficilmente si potesse aspettare un figlio che sceglie di sacrificare la vita per la libertà di un altro popolo, in un’altra parte del mondo.