Tra miserie e incertezza, il 26 giugno 1865, nel paese di Butrimonys, quattromila anime a sessanta chilometri da Vilnius, in Lituania, nacque, da un venditore ambulante di stoviglie di nome Albert Valvrojenski e dalla diciassettenne Judith Mickleshanski, Bernhard. Dieci anni più tardi, dopo l’incendio che ne distrusse la casa, i Valvrojenski lasciarono per sempre l’Europa dell’Est; raggiunsero i cugini a Boston e cambiarono il loro cognome in Berenson.
Così inizia la storia di uno dei più importanti conoscitori e storici dell’arte italiana che hanno attraversato gli scorsi due secoli, raccontata da Rachel Cohen in Bernard Berenson Da Boston a Firenze (Adelphi, «I Casi», pp. 326, euro 32,00).
Non è la prima biografia di Bernard Berenson (o B.B., come verrà spesso chiamato). Nel 1960, a un anno dalla morte, usciva Berenson. A Biography, di Sylvia Sprigge, tradotto per Ricciardi nel ’63; seguono i libri di Meryle Secrest (1979, l’edizione italiana è dell’81) ed Ernest Samuels (1979, 1987). Ci sono poi le pagine autobiografiche, le raccolte di lettere, le autobiografie e biografie di amici, conoscenti, allievi, e un’enorme raccolta di documenti di vario tipo conservata con acribia nella consapevolezza del proprio ruolo, per la narrazione del proprio mito, perlopiù nella casa – «essudazione del mio corpo, il frutto del mio particolare modo di funzionare» – nella quale Berenson abitò per buona parte della vita: villa I Tatti, fuori Firenze, oggi sede del centro di studi sul Rinascimento dell’Università di Harvard.
Perché tanta attenzione? Perché nella vocazione di studioso di Berenson si è nascosto qualcosa di profondo e misterioso, sfociato oltre la biblioteca e il tavolo di lavoro, che ha plasmato la sua vita, persino la sua casa, in uno stile, e il suo lascito in un’eredità universale simile a quella di un artista.
Il libro della Cohen non è un romanzo e nemmeno un testo scientifico, mescola però forme di uno e dell’altro genere letterario; utilizza le biografie già edite e materiale d’archivio, distillando, inevitabilmente. Emerge qualche novità sulle origini di B.B. e sulla sua giovinezza, per esempio sui primi anni a Boston, quando lui e il padre percorrevano gli stessi quartieri. Albert, messe definitivamente da parte le ambizioni da studioso coltivate in Europa, raccoglieva ferrivecchi da rivendere nel negozio del cugino Louis, mentre Bernard entrava nei salotti dell’alta borghesia bostoniana come un’attrazione esotica, incantando con una cultura fuori dall’ordinario e un eloquio seducente, stregonesco, che i suoi ascoltatori associavano naturalmente alle sue radici ebraiche.
Erano state le chiacchiere erudite del padre a formare i primi interessi di Bernard. Poi vennero i libri: erano un argomento di conversazione con cui il giovane esule e sradicato del Vecchio Mondo si proiettava nel cuore di una città piena di stimoli.
Nel 1884 Berenson varcò i cancelli di Harvard grazie al mecenatismo dell’amico Edward Warren. Seguì da subito corsi su lingue e civiltà che sentiva affini, dell’Oriente semitico e della Russia. Ma Harvard era un mondo cristiano e, mentre lavorava a una tesi sull’escatologia talmudo-rabbinica, si convertì al protestantesimo; poco dopo lasciò lo studio delle lingue antiche per dedicarsi all’arte italiana, sulla scia di Walter Pater e Henry James e suggestionato da Charles Eliot Norton, alle cui conferenze si riunivano «gli uomini più avvenenti del college». «Botticelli» divenne parola sacra per i giovani di Boston e «tutti», dichiarò Mary Smith, futura Mary Berenson, «diventammo preraffaelliti». Nel 1888 Bernard partì per l’Europa finanziato dalla filantropa Isabella Stewart Gardner, considerandosi un uomo di lettere. Nei primi mesi si sentì sopraffatto: «sono lontano dall’essere uno scrittore e ancor più lontano dall’avere i mezzi e lo spirito per essere quello che tutto sommato mi riuscirebbe meglio: un uomo di mondo», scrisse alla Gardner. Nel 1891, a Monte Oliveto, un’altra conversione. In Italia diventava cattolico e, dopo un incontro con Giovanni Morelli, decideva di occuparsi attivamente d’arte dedicando tutta la sua vita, «senza nessuna aspirazione a un riconoscimento», alla «scienza dell’attribuzione». Era un’altra rinascita o negazione del sé precedente oppure, come dirà la futura moglie Mary, uno spostamento – obbligato, sanante – dal più torvo Cosa sono io? al Cos’è questo?
Nel libro della Cohen è raccontata la trasformazione di Berenson in un conoscitore inarrivabile, un consumatore d’immagini che ha bruciato il metodo morelliano «dell’orecchio e dell’unghia del piede» (Norton) in una capacità d’osservazione che traeva forza dall’immedesimazione, dall’intuito, da uno sguardo scientifico distaccato sugli stili della pittura antica e da un’«intensificazione vitale» determinata da quelli che percepiva come effetti fisiologici della visione. Tutto rischiava di essere mistificato, tra potenza dell’inconscio e abilità divinatorie (Freud sembra a un passo). Del resto il mistero, non senza un poco di civetteria, non ammanterà solo l’esperienza di conoscitore, ma anche l’aspetto economico dell’impresa B.B. Gli addentellati con il mercato antiquario – e i suoi rapporti con quello che è forse il più grande mercante d’arte antica del secolo scorso, Joseph Duveen – saranno sempre tenuti segreti. La biografia della Cohen è attenta alle ricadute psicologiche di questi aspetti commerciali, centrali nella conduzione dell’esistenza dello storico dell’arte e causa di un continuo rovello, un’angoscia e un senso di colpa costanti. La speculazione sulle compravendite, i grandi e piccoli sotterfugi per far arrivare i dipinti negli Stati Uniti, a volte galvanizzavano, altre gettavano nell’estremo sconforto, ma erano inevitabili nell’intreccio relazionale ed economico nel quale B.B. era calato. Alimentare il proprio mito – e la propria, numerosa, famiglia allargata – era costoso: nei momenti più foschi Bernard si sentiva come il padre, un commerciante «angariato, abbindolato e sfruttato», ai margini della classe sociale alla quale ambiva di appartenere. L’antisemitismo, anche quello interiorizzato, faceva il resto.
Anche lo studio, a volte, diventava un «incubo» insopportabile, come durante la preparazione de I disegni dei pittori fiorentini quando, tormentato, scrisse alla Gardner: «viste le attuali condizioni dei miei nervi, sarei sinceramente contento di morire». Eppure i risultati dei suoi libri e delle sue scelte, connessi ai risvolti che ebbero sul gusto e nella formazione dei musei americani e della storia dell’arte novecentesca, sono imponenti. Ancora negli anni trenta le «liste» delle attribuzioni pubblicate a conclusione di ciascuno dei quattro testi che Berenson scrisse tra il 1894 e il 1907, raccolte, aggiornate e riedite, sono un «orario delle ferrovie artistiche italiane che molti, per poltroneria mentale, tengono per vangelo» – così dirà, sarcasticamente, Longhi.
Siano determinate dallo studio o dal commercio, in ognuna di queste crisi le donne figurano come salvatrici. Su tutte la sorella Senda, la Gardner, la moglie Mary, l’amica Edith Wharton, l’amante Bella Greene, bibliotecaria del potente, «ciclopico, demoniaco» J.P. Morgan; infine la compagna degli ultimi quarant’anni ai Tatti, Nicky Mariano.
In queste pagine che sintetizzano un’esistenza eccezionale si parla, forse giustamente, più di persone che di dipinti. Purtroppo poco o nulla si dice del Berenson collezionista accortissimo e nel citare i quadri, quasi accessori di scena, si riporta solamente la vecchia attribuzione di B.B. Eppure lo stesso Berenson nei suoi ultimi diari (Tramonto e crepuscolo, Feltrinelli 1966) aveva messo tra gli ingredienti principali di una sua possibile, ideale, biografia, anche «la data di acquisto di ogni sua opera d’arte». Magari a partire dal 1890 quando comprò, poco più che ventenne, quello che credeva un Bronzino per l’amico Warren. La passione per quel quadro, guardato e riguardato ossessivamente, «minacciava di inghiottire il mondo intero».