Bisogna salire al terzo piano, per cominciare la visita alla prima mostra antologica dedicata a Berenice Abbott in Italia, al piccolo Museo MAN di Nuoro, fino al 31 maggio. E la vediamo subito, Berenice, in un lungo video, con i capelli ormai bianchi e corti, parlare delle sue fotografie, delle sue scelte, di Parigi, di New York, della scienza, così come lei aveva scelto di esplorarla e rappresentarla.
Ottantadue stampe originali realizzate tra la metà degli anni Venti e i primi anni Sessanta, sono divise in tre diverse sezioni – Ritratti, New York e Fotografie scientifiche. Sono immagini in cui viene anche raccontata la vita e il coraggio di una delle prime fotografe, delle prime donne che aveva conquistato il mondo dell’immagine con una macchina fotografica appesa al collo. A New York, dove si era trasferita per studiare scultura, era entrata in contatto con Marcel Duchamp e Man Ray. Avrebbe incontrato di nuovo il fotografo surrealista poi a Parigi, dove si era trasferita nel 1921, e dove sarebbe diventata la sua personale assistente in camera oscura.
Già, proprio a Parigi, a Montparnasse, con l’aiuto e la supervisione dell’amico Man Ray, apprenderà l’arte fotografica e qui avrebbe cominciato la sua personale storia di artista e fotografa.
E allora eccoli qui, i suoi primi ritratti, quelli di grandi icone della cultura, dei protagonisti delle avanguardie di inizio Novecento. Troviamo James Joice, Jean Cocteau, Max Ernst, André Gide, Sylvia Beach, proprietaria della famosa libreria Shakespeare & Company, che ricordava che, una volta fermati nello scatto di Berenice Abbott, questi artisti e intellettuali “diventavano qualcuno”. Sono tutti ritratti estremamente semplici con una composizione dove gli elementi sono ridotti all’essenziale, senza decorazioni o distrazioni di sorta. Secondo alcuni critici, sono statianche questi primi ritratti a darle modo di esprimere, in un’epoca ancora lontana dal riconoscimento e dall’accettazione dell’omosessualità femminile, la propria verità sessuale.
Una volta lasciato lo studio di Man Ray, il suo nuovo studio laboratorio di fotografia di Parigi, aperto grazie all’aiuto di Peggy Guggenheim nel 1926, sarà frequentato da un circolo di intellettuali, di donne. Anche di donne lesbiche, come Jane Heap, Janet Flanner, Betty Parson, fino a quando, sempre nel 1926, avrebbe esposto il proprio lavoro, i ritratti, alla galleria “Le Sacre du Printemps”. Avrebbe conosciuto in questi frangenti il vecchio fotografo francese Eugène Atget e le sue immagini, quelle di una Parigi che stava ormai scomparendo. Immagini di cui, alla sua morte, Berenice Abbott acquisterà gran parte dell’archivio.
Tornata negli Stati Uniti nel 1929, proprio pochi mesi prima che la Grande Depressione avesse inizio, e arricchita dall’esperienza e dalla lezione di Man Ray e dalle immagini delle Parigi di Eugène Atget, si dedicherà a un unico grande progetto, quello di New York, che rappresenta un’altra sezione della mostra. Il suo progetto racconterà l’evoluzione della città di New York e le sue trasformazioni in seguito agli anni della Depressione, dal 1929 in poi. Proprio una città che “ si erige, sotto il segno dei tempi moderni”.
Diventano qui protagonisti i grattacieli che si sostituiscono a vecchi edifici, le insegne e i negozi, forse segnali di una piccola economia che va scomparendo. Nel 1939 Berenice Abbott dà alle stampe il libro “Changing New York”, ancora oggi un tassello importante nella storia della fotografie del XX secolo.
È la vertigine dell’altezza dei grattacieli guardati dal basso e dall’alto, la prospettiva lunga di strade newyorchesi interrotte dalla comparsa di un ponte, i dettagli della macchina costruttiva di grandi palazzi, del mondo ordinato e geometrico del ferro. E poi dei dettagli della vita più silenziosa, con i negozianti e le loro piccole attività.
I palazzi e l’architettura avevano lasciato spazio poi ad altri interessi e, nel 1940, Berenice diventa Picture Editor per la rivista “Science Illustrated”. Le immagini scientifiche, parte della terza sezione della mostra, rappresentano il suo rigore e la sua serietà e, proprio in queste fotografie, riesce a raccontare spazi scientifici di ricerca essenziali, dove sembra si debba lasciare da parte ogni valutazione di tipo soggettivo.
Nel 1960, dopo il lancio del satellite artificiale Sputnik da parte dall’Unione Sovietica, gli Stati Uniti fondano il Physical Science Study Commetee, (con sede presso Massachusett Institute of Technology, MIT). Berenice Abbott offre allora la sua collaborazione e lavora a materiali didattici, tra cui un libro che spiega visivamente i principi fisici della luce, della velocità e del magnetismo.
Le immagini scientifiche risultano essere anche una sorta di spazio privilegiato che si colloca oltre ogni riferimento a spazi urbani e abitati ma rappresentano solo la semplice scientificità. Nella parte della mostra dedicata alla fotografia scientifica, Berenice Abbott si concentra e si dedica alla rappresentazione delle immagini scientifiche eseguite e realizzate in laboratorio, dove l’elemento umano non compare, ma sono invece protagonisti l’osservazione del dinamismo e degli equilibri delle forme.
Nel 1981 avrebbe detto, in un’intervista ad Art News: “la gente dice che ha bisogno di esprimere le proprie emozioni. Ma sono stanca di queste cose. La fotografia non ti insegna a esprimere le tue emozioni. Ti insegna a vedere”.