Alcol e riduzione del danno: il tema – cui è dedicata la Summer School 2016 di Forum Droghe e Cnca nazionale e toscano, in programma dall’8 al 10 settembre a Firenze – è ricco di angolature e suggestioni.

L’interesse più immediato, dal punto di vista di chi opera nel campo dei servizi, è di rilanciare un modello operativo meno diffuso nel campo dell’alcol che delle droghe illegali. Il che è un paradosso, degno di approfondimento, se non ci limitiamo a vedere la riduzione del danno come un insieme di interventi non finalizzati all’astinenza, ma come un approccio di politiche pubbliche che discende da un preciso paradigma di lettura dei consumi e dei fattori che si ipotizza li influenzino. In questa prospettiva, è stato l’alcol, prima delle droghe illegali, al centro del conflitto fra paradigmi. Da un lato il modello “morale”, ma anche il modello “malattia”, focalizzato sull’alcolismo (cui si rifanno i famosi programmi dei “dodici passi”): ambedue orientati, seppur per ragioni diverse, al “consumo zero”. Dall’altro il paradigma dell’apprendimento sociale, che a differenza dei primi amplia lo sguardo oltre la farmacologia e la patologia individuale, riuscendo perciò a cogliere le differenze nei modelli del bere, sia rispetto ai livelli di rischio, che ai significati e ai rituali che il bere assume nei diversi contesti socioculturali (le “culture del bere”). Da qui il cambio di obiettivi delle politiche pubbliche, dalla riduzione della prevalenza dei consumi nella popolazione, alla promozione del “bere più sicuro”; ma anche il cambio di obiettivi nei servizi, dall’astinenza come imperativo unico, a una pluralità di cambiamenti in positivo, nel modello del bere ma anche nell’intera struttura di vita della persona.

Questo conflitto esplode già negli anni settanta e ottanta, quando, specie per iniziativa di due psicologi statunitensi, Mark e Linda Sobell, si cominciano a ideare e valutare programmi finalizzati al “bere controllato”: suscitando violente reazioni, tanto che il lavoro dei Sobell è stato tacciato addirittura di “frode”. Tale era ancora radicata l’ideologia dell’alcol come “demonio”, propria del movimento della Temperanza, a oltre mezzo secolo dalla fine del proibizionismo.

Oggi sappiamo, anche dalla ricerca epidemiologica, che per i bevitori “fuori controllo”, compresi quelli diagnosticati come alcolisti, il ritorno a modelli controllati del bere è non solo un esito possibile, ma anche quello più comune. È bene però ribadire che la riduzione del danno non si esaurisce nell’apprezzamento del “bere controllato” quale obiettivo in ambito clinico: ciò è semmai l’esito di un approccio che, a differenza dei precedenti, si concentra sulle risorse “naturali” dei contesti sociali e degli individui nel “tenere sotto controllo” il bere (o nel riconquistare il controllo quando si sia indebolito). Da qui l’importanza attribuita alla ricerca sul cosiddetto natural recovery delle persone che attraversano periodi di bere intensivo e che li superano cambiando il loro comportamento senza l’aiuto dei servizi. Al tema dei percorsi di self change sarà perciò dedicato l’intervento del sociologo Harald Klingemann, uno dei più importanti studiosi nel campo.

L’alcol è dunque un osservatorio privilegiato per l’approccio di riduzione del danno, poiché, a differenza che per le droghe illegali, le regole informali all’uso sicuro hanno la possibilità di circolare liberamente. Non è un caso che negli anni settanta Norman Zinberg, per elaborare il nuovo paradigma dell’apprendimento sociale centrato sulle culture dell’uso come fondamentale fattore di “controllo”, proprio dall’alcol, in quanto sostanza acculturata per eccellenza, prenda ispirazione.

(il programma della Summer School su www.fuoriluogo.it)