Proveniente da una famiglia di nobili ufficiali, Nikolaj Berdjaev cominciò il suo percorso da posizioni marxiste, dichiarandosi un aristocratico «che ha accolto la verità del socialismo». Partecipò alla Unione della liberazione che nei primi del ’900 lottava per rovesciare lo zarismo; era un fervente ortodosso ma al tempo stesso un anticlericale – nel 1916 pubblicò Il senso della creazione. Saggio per la giustificazione dell’uomo, il nucleo del suo pensiero religioso, in contrasto con la Chiesa. Irascibile, irrequieto, pignolo, intrattabile, solitario, resta tra i più significativi filosofi religiosi della emigrazione russa, di sé racconta nella sua Autobiografia spirituale, riproposta da Jaca Book (a cura di Adriano Dell’Asta, pp. 432, € 38,00), che venne pubblicata postuma nel 1949 per le edizioni Ymca Press, di cui lo stesso Berdjaev era direttore dal 1925.

Né diario, né memorie, né confessione, piuttosto – come recita il titolo russo – «autocoscienza, saggio di autobiografia filosofica», dove la trasformazione di sé e del proprio destino si converte in oggetto di indagine. Vi si alternano ricordi e soprattutto riflessioni sul tentativo di comprendere il significato del proprio io e della propria vita. In quanto «filosofo della libertà», andrà quattro volte in prigione, due durante il periodo zarista perché studente ribelle e due dopo la rivoluzione, perché libero pensatore e credente.

Nei cinque anni vissuti durante il comunismo, dal 1918 al 1922, Berdjaev ammise i propri privilegi: viveva in un appartamento sulla via Arbat, con biblioteca e una sostanziosa razione di cibo, ciò che non gli risparmiò di venire interrogato alla Lubjanka dal capo stesso della polizia segreta Deržinskij. Si sentiva orgoglioso di quegli anni, gli ultimi trascorsi in Russia, perché ne apprezzava la carica rivoluzionaria ancora grezza, quella immensità, quella grandezza infinita della forza naturale russa (di cui tratta nella sua opera più famosa L’idea russa del 1946). Assistere ai mutamenti delle contingenze è il suo dolore più grande: «non c’è cosa peggiore – scrive – che discutere con un avversario rozzo e di scarsa cultura».

Nel 1922, insieme alla moglie, venne costretto a salire sul «piroscafo filosofico», ovvero a subire l’espulsione di massa organizzata da Lenin per liberarsi di una cospicua parte della intelligencija «eterodossa». I Berdjaev si stabilirono prima a Berlino, poi a Parigi, dove in contatto col mondo occidentale Nikolaj sarebbe stato al centro del dibattito filosofico e religioso, divenendo uno dei maggiori ideologi del Movimento degli studenti cristiani russi. Pubblicò anche molto: nel 1923 il Senso della storia e La concezione di Dostoevskij, ma a renderlo famoso fu soprattutto il suo Nuovo Medioevo del 1924, in cui descrive il significato dell’epoca e la catastrofe cui aveva assistito, la prima guerra mondiale e la guerra civile dopo la rivoluzione. Morì nel 1948, a settantaquattro anni, a Clamart, vicino Parigi, dove si era trasferito nella casa che un’amica gli aveva lasciato in eredità.

Le pagine più interessanti della Autobiografia riguardano proprio il crollo di un mondo e la nascita del nuovo: Berdjaev si proclama riservato, si sente erede della storia del pensiero russo, e soprattutto di Dostoevskij e Tolstoj, di Solov’ev e Fedorov: combina, infatti, la tradizione filosofica russa con il misticismo medievale (si avvicina a Jakob Böhme proprio a Berlino), il socialismo e l’antroposofia. La centralità che assegna alla persona e la sua riflessione sulla libertà fanno sì che lo si consideri un esistenzialista, come il suo amico, sebbene avversario teorico, Lev Šestov; ma al contrario di lui Berdjaev definisce il suo pensiero totalizzante, espresso nella forma dell’aforisma, come un microcosmo in cui si concentra tutta la filosofia, contraddizioni incluse.

È sostanzialmente un anarchico spirituale, sempre fuori posto. Fosse stato per lui non sarebbe mai emigrato, non sopportava l’ambiente della diaspora russa della prima ondata: ripete spesso nell’Autobiografia di sentirsi isolato, e anche avverso agli emigrati, l’unico a non provare risentimenti contro il comunismo. La rivoluzione, a suo parere, era inevitabile, un momento necessario nel destino interiore del popolo russo, della sua dialettica esistenziale, e credeva – nella sua tensione verso il futuro – che il comunismo avrebbe potuto migliorarsi: la narrazione della memoria, scrive, serve a vincere la morte.