Il primo giorno da sindaco, niente note dolenti. Oggi si festeggia, si fanno promesse, bisogna cercare di farsi voler bene: “Se c’è una cosa che voglio, in ogni modo, è essere un uomo giusto”, questo il cinguettio d’esordio del neo sindaco di Milano. Che fa il paio con il primo incontro istituzionale annunciato: il cardinale Scola.

Meglio così, l’ex manager chiamato alla politica per puntellare un progetto già naufragato in fondo è l’unico che in queste ore si merita un po’ di pace. Sicuramente più della coalizione che lo ha sostenuto facendo scappare metà dell’elettorato milanese. Beppe Sala ha davanti a sé cinque anni per rendersi conto cosa significa governare Milano con metà della città che ha disertato le urne (dato storico) e con un risultato sul filo di lana (ci sono solo 17 mila voti di differenza tra i due manager che si sono contesi Palazzo Marino). Una maggioranza esigua che è risultata vincente grazie a chi ha votato non per lui ma contro il centrodestra.

Ma a parte Sala – archiviate le prese di distanza propagandistiche da Matteo Renzi – non sarà facile per Milano digerire il passaggio dalla “rivoluzione arancione” all’involuzione del Pd, un partito che governa all’ombra della madonnina proprio quando è in caduta libera. Più che un laboratorio d’avanguardia la città potrebbe diventare culla, anzi bara, di un esperimento politico già morto e sepolto dopo il voto di domenica scorsa. Per rianimare il centrosinistra, nonostante le velleità da pontiere dell’ex sindaco Giuliano Pisapia, a questo punto ci vorrebbe un miracolo. L’ex manager però guarda avanti e si dà un orizzonte decennale per governare al meglio Milano, ma è un tempo che in una fase così confusa e di transizione può rappresentare un secolo.

Beppe Sala, durante la sua prima conferenza stampa da politico, non può eludere l’argomento e se cava svicolando con un certo garbo. “Non so se ho salvato il governo, mi sembra tanto – si schermisce – certo è stato importante vincere a Milano. Renzi è soddisfatto, dice che la nostra è stata una grande campagna elettorale. I voti si tirano su con buone idee, ma anche con grande determinazione. E’ ammirato da quanto fatto”.

L’argomento non aiuta a rasserenare gli animi, per cui è la futura giunta a tenere banco nei discorsi del giorno dopo, almeno fino a lunedì, probabile giorno dell’annuncio. Il sindaco sembra avere le idee chiare. Vuole un “team coeso”, sei uomini e sei donne. Magari “giovani”. Verranno sicuramente premiati gli assessori più votati (dunque rivedremo all’opera Pierfrancesco Majorino, Pierfrancesco Maran e Cristina Tajani) ma ci sarà anche qualche sorpresa, “risorse di alta qualità dall’esterno perché la politica può avere grande contributo da persone che vivono a Milano, conoscono Milano e hanno capacità”. Il vicesindaco probabilmente sarà una donna. Dovrebbe esserci una poltrona anche per Umberto Ambrosoli, che dunque lascerà il consiglio regionale. Tra i primi consulenti chiamati ad impreziosire la squadra sono stati chiamati l’ex magistrato Gherardo Colombo, Emma Bonino e dj Linus (quando si dice è la giunta che conta).

Sono tre le priorità che il neosindaco ci tiene a sottolineare. Capitolo periferie, il luogo dove il Pd (e la sinistra) ha perso in capacità di penetrazione, “saranno la nostra ossessione da domani mattina”. Lì il “popolo”, in Italia, vota altro. “Prima di tutto le periferie – ripete Sala – e la riqualificazione delle case popolari, voglio tenere la delega perché voglio curare in prima persona questo aspetto”. A seguire, “la politica ambientale, traffico e sostenibilità, con una visione di lungo termine, che colleghi Milano al livello più alto tra le città contemporanee”. La terza questione è il suo pane, dice di saperci fare come nessun altro: “Dopo Expo, è il tema della promozione internazionale, che parta dai successi del 2015. Intendo puntare sull’attrazione di investimenti, attrazione che Milano può avere per gli studenti di tutto il mondo grazie alle sue università, e sull’attrazione per i turisti, ragionando in termini manageriali”.

Il suo modello è Londra. Il buon Giuliano aveva promesso Barcellona (no Ada Colau!, intendeva movida per “noi giovani”).