Il suo libro di esordio avrebbe dovuto intitolarsi Racconti della guerra civile e invece uscì da Einaudi, nel ’52, con il titolo I ventitré giorni della città di Alba nella collana che oggi diremmo di talent, «I Gettoni», promossa da Elio Vittorini. Il titolo d’autore in piena Guerra Fredda suonava allora ambiguo, almeno per il lessico di senso comune, nei confronti dei fascisti repubblichini come se indirettamente li nobilitasse. E non lo avrebbe mai voluto l’autore del volume, Beppe Fenoglio, un ignoto esordiente, trentenne autodidatta di Alba e procuratore di una azienda vinicola, già ufficiale di collegamento nei badogliani del comandante Martini Mauri nelle Langhe meridionali tra Santo Stefano Belbo, Mombarcaro e Alba stessa.

LA RESISTENZA di cui trattano i racconti si intona al carattere riservato dello scrittore, al suo stile essenziale, completamente destituito di retorica, e al riguardo basterebbe la descrizione dell’ingresso dei partigiani in Alba, corteo variopinto, festoso e sciamannato, per segnare una perfetta alterità, quanto al realismo, rispetto ai libri in voga quali L’Agnese va a morire (’49) di Renata Viganò, una bellissima cantata corale e popolare della Resistenza o, di andatura picaresca Il sentiero dei nidi di ragno (‘47), a firma di Italo Calvino, suo autentico sponsor alla Einaudi o infine Uomini e no (’46), del medesimo Elio Vittorini, che ha la forma di una partitura dialogica. Fatto sta che la stampa di sinistra, e comunista in particolare, liquida d’acchito I ventitré giorni se uno storico della letteratura ed ex resistente, Carlo Salinari, può scrivere su l’Unità che il libro è una «cattiva azione».

Gli altri due libretti che Fenoglio riesce a pubblicare in vita, prima di spegnersi a Torino nel ’63 poco più che quarantenne, cadono di nuovo in un silenzio distratto e vagamente ostile: l’uno, La malora (’54), è un racconto di dura sopravvivenza contadina, l’altro, Primavera di bellezza (’59), è il frammento di un romanzo di formazione culminante nella svolta dell’8 settembre.
Alla morte dello scrittore, nessuno può immaginare che ad Alba giacciono qualcosa come duemila pagine di inediti e che, dunque, sarà quasi integralmente postuma la vicenda del più grande prosatore italiano del secondo Novecento. Già nel ’63, esce il racconto lungo che più d’uno ritiene il suo capolavoro, Una questione privata, titolo paradossale che tratta la vicenda di un partigiano, Milton, la cui odissea è scandita e motivata sottotraccia dalla ricerca di una donna, Fulvia, la quale ha il sembiante di una Dafne fuggitiva; poi, nel ’68 e grazie a uno studioso benemerito, Lorenzo Mondo, esce un’opera di segno e dimensioni antipodi («libro grosso» lo chiama Fenoglio nelle lettere) e cioè Il partigiano Johnny, nuda e tragica epopea dove i compagni caduti ricordano gli antichi greci uccisi dai persiani.

FRA I DUE APICI, fra la tesa elegia di Una questione privata e l’epica dispiegata del Partigiano Johnny, opere scritte di notte e fumando senza tregua, c’è il grande invaso ribollente di una testualità inconclusa ma, per paradosso ennesimo, non incompiuta nel suo stato di perpetua incandescenza linguistica e stilistica: così si spiega il fatto che nel corso del tempo quella eredità abbia avuto ben tre edizioni complessive, dalla pionieristica a cura di Maria Corti e Maria Antonietta Grignani (Opere, Einaudi 1978), alla stampa procurata da Dante Isella (Romanzi e racconti, Einaudi-Gallimard 1992) infine alla edizione che oggi il suo maggiore studioso, Gabriele Pedullà, ha ricostruito e riassemblato nel volume Il libro di Johnny (2015) vera e propria Opera/Mondo che guarda ai classici dell’epica, l’Odissea, l’Eneide e persino ovviamente Lost Paradise di Milton. Ma va subito aggiunto che se Fenoglio ad apertura di pagina resta sempre Fenoglio nonostante la frammentarietà costitutiva e i filtri della filologia, ciò rimanda al suo prodigio di lingua e di stile, vale dire alla forza penetrante del suo sguardo.

Appassionato di storia e di letteratura inglese fin dai tempi del liceo, è noto che da partigiano si immaginava nella veste di un guerriero di Cromwell con la Bibbia nello zaino ed è noto anche a qualunque lettore che (detestando egli l’italiano delle lapidi e il gergo fascista) spesso redigeva più o meno integralmente la pagina in inglese in attesa che essa lievitasse in italiano: ma che quelle pagine siano ultimate o meno, ai lettori postumi ne rimane il vibrare tellurico, il ritmo felicemente asincrono, la vividezza ruvida e capace di azzerare di colpo tanto i decenni di prosa d’arte e di bigiotteria dannunziana quanto i protocolli edificanti del progressismo neorealista.

E, AL RIGUARDO, che Fenoglio fosse stato un fazzoletto azzurro di Badoglio, che il 2 giugno avesse votato monarchia, che non si fosse mai spinto oltre un pigro e distratto consenso (apprendiamo sempre dall’epistolario) ai socialdemocratici di Saragat o ai socialisti di Nenni, tutto ciò ne fa un caso di «trionfo del realismo» secondo la accezione di Lukacs. Perché Fenoglio (e per tutt’altra via, ad esempio, un Roberto Rossellini) non deve liberarsi di alcuna obbedienza o zavorra ideologica per aderire alla propria materia e infatti il lettore percepisce non una generica volontà ma la fisica necessità della sua adesione ai fatti.

Quando Fenoglio afferma, e a più riprese, di sentirsi un partigiano «forever», a vita, noi sentiamo che questo è vero alla lettera e che è in questione non una generica opzione ideale ma viceversa un pegno etico, un mortale giuramento: non è affatto un caso che il grande libro del ’92 a firma di Claudio Pavone rendesse un omaggio virtuale allo scrittore di Alba sia nel titolo, Una guerra civile, sia nel sottotitolo che suona Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. È una moralità laconica, severa quella di cui sono portatori i Johnny, i Milton, i Nord, gli eroi comuni di imprese soltanto immaginabili in biancoenero o fissate in un continuum di muti bassorilievi da Colonna Traiana.

FENOGLIO È RIVOLTO al passato ma colloca i fatti in un presente inconsumabile per cui la scelta della Resistenza per lui non può usurarsi e venir meno, come rammenta Il partigiano Johnny: «Fare il partigiano era tutto qui: sedere, per lo più su terra o pietra, fumare (ad averne), poi vedere uno o più fascisti, alzarsi senza spazzolarsi il dietro, e muovere a uccidere o essere uccisi, a infliggere o ricevere». Del resto, e senza retorica alcuna, una volta aveva scritto qualcosa che difficilmente ad altri sarebbe perdonato: Ricordati che senza i morti, i loro e i nostri, nulla avrebbe senso.

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SCHEDA. Nuove introduzioni di quattro Tascabili

Beppe Fenoglio abbandonò Einaudi perché offeso dal risvolto di copertina che Elio Vittorini aveva steso per «La malora» (’54) alludendo a un potenziale provincialismo dello scrittore di Alba. Passato in punto di morte a Garzanti che gli pubblicò «Primavera di bellezza» (’59) e postuma la raccolta «Un giorno di fuoco» (’63) già inclusiva di «Una questione privata», fu poi l’amico e grande estimatore Italo Calvino a recuperare per il catalogo di via Biancamano un’opera che avrebbe avuto diverse edizioni complessive (Corti-Grignani, 1978; Isella 1992; Bufano -Pedullà 2007-2012).
Ora, per il centenario della nascita dello scrittore, Einaudi propone nei Tascabili quattro titoli con nuove introduzioni d’autore. È Davide Longo a introdurre «I ventitré giorni della città di Alba» (pp. XII+171, euro 11.00) mentre Nicola Lagioia presenta «Una questione privata» (pp.XI-179, euro 12.00) e Gabriele Pedullà con un saggio specifico apre l’edizione-Isella de «Il partigiano Johnny» (pp. LXIII+505, euro 14.00). Di notevole interesse per i diversi inediti è anche la riedizione delle «Lettere 1940-1962» (pp. XIV+302, € 13.00) a cura di Luca Bufano che allega una ricca appendice di testi rari. Integrata da un capitolo concernente il ritrovamento nel 2013 delle armi partigiane di Fenoglio (mai riconsegnate dallo scrittore dopo la guerra), è infine la riproposta della bellissima biografia di Piero Negri Scaglione, «Questioni private. Vita incompiuta di Beppe Fenoglio» (pp. 308, euro 12.50). (ma. ra)