Un’importante mostra monografia al MART di Rovereto rende omaggio, fino al 14 febbraio 2016, a Beppe Devalle, artista torinese di nascita, milanese d’adozione, scomparso nel 2013. Accompagna la mostra un catalogo edito da Electa (Devalle, euro 39,00), al quale hanno collaborato alcuni degli studiosi che per anni sono stati tra gli interlocutori privilegiati dell’artista. Contributi talvolta dal tono molto personale, in altri casi con taglio storico-critico, in altri preziosamente documentari rendono di fatto la pubblicazione, dall’intrigante formato editoriale, un solido punto di partenza per l’avvio di una messa in prospettiva di Devalle, che non potrà prescindere dall’importante contesto culturale e amicale in cui la sua vicenda umana e pittorica si è sviluppata. Che su questo artista sia importante ancora riflettere, è una sensazione nitida all’uscita della mostra, dove opere realizzate dagli inizi degli anni sessanta fino a poco prima della morte dipanano un percorso artistico senza scorciatoie, altissimo e personale, non sempre facile da mettere a fuoco, anche perché iterate autolegittimazioni e abusati marchi di fabbrica sono del tutto al bando: da una fase all’altra netti i cambi materici, bruschi i passaggi di formato, incessantemente variate le iconografie, stridenti i registri proposti, sempre in cerca di soluzioni formali e sperimentazioni tecniche definitive.
Classe 1940, Devalle esordisce da dandy elegante, precocemente transoceanico, sulla scena intellettuale forse più ricca dell’Italia post-bellica: la Torino degli anni sessanta, di Einaudi che traduce Salinger. Il problema è quello del superamento dell’informale. Devalle guarda a Klee e alle Avanguardie storiche. Cerca l’ordine e abbandona il pastello a cera per il collage, il ritaglio, il prelievo. La tecnica è nuova, l’esigenza antica: partire dal contorno delle cose per dare vita alla figurazione, come nel Rinascimento si imparava a dipingere partendo dal disegno dall’antico, e la fotografia, bidimensionale, diventa un filtro che tiene lontana la realtà, secondo il più raffinato dei classicismi. Sono gli anni di opere meravigliose, di paesaggi industriali notturni e locandine hitchcockiane, come in Strada Cormar (1966), prima concepiti come fotocollage (esposti solo dopo il 1992), poi portati in grandi dimensioni ad acrilico. Sono gli anni scenografici di Complesso (1967), Prospettiva (1968) e African Tree (1969), capolavori ‘neo-futuristi’ che suscitano l’interesse di Carlo Scarpa. Nel 1970 poi, il formato e la tecnica cambiano: è il momento dei fotomontaggi su carta, elegantissimi, geometrici, magici.
È Giovanni Romano, in un saggio del 1972 dal titolo Con il conforto della ragione, a mettere a fuoco l’importanza dell’impegno di Devalle nel suo primo decennio di attività, in una mostra dove l’artista figura con quattro altri protagonisti della scena torinese degli anni sessanta (Anselmo, Fogliati, Gallina e Paolini), ugualmente, come lui, attenti a capire i fondamenti della modernità, artisti le cui «operazioni non si esauriscono nel momento stesso in cui vengono realizzate, sono anzi destinate a durare nel tempo, quasi a costituire una tradizione, un punto di riferimento per altri che verranno». Non la voglia di ‘autonomia’, in una sorta di vuoto pneumatico dalla Storia, ma una libertà di ricerca che in Devalle continua, anche nei decenni successivi, a restare lontano tanto da logiche contingenti di mercato e accorpamenti cooperativi, quanto da costrizioni contenutistiche, così da trovare nel favoloso, nel simbolico, nell’allegorico e nell’epico, antidoti potenti all’illustrativo e al letterario. Un’autodeterminazione costantemente lucida, che ha finito per raccontare un’‘altra’ storia dell’arte del Novecento, un ‘come sarebbe potuto essere’, rispetto a cui eredità e lasciti restano forse ancora da soppesare. Una cosciente e logica responsabilità individuale che, lontano da disimpegni narcisistici e soggettivismi, ha supportato Devalle in una costante e inesorabile riflessione (prima autoinflitta poi generosamente condivisa negli anni di docenza a Brera) sulla didattica dell’arte, sulla sua trasmissibilità, e quindi sulle tecniche e sulle materie, in una sorta di atto fondativo e rigenerante, e di ‘funzione paterna’ (Dario Trento, 2009).
L’imponente approfondimento bio-bibliografico di Flavio Fergonzi, in chiusura del catalogo, permette di rivivere l’esperienza dell’artista passo dopo passo, con una ricchezza di annotazioni personali da appunti, lettere, introvabili brochures di mostre, che raramente si offrono con tanta generosità. A emergere è la raffinata cultura visiva di Devalle, già abituato, fin da giovane e anche prima dell’esperienza didattica all’Accademia, a ripensare la propria arte alla luce dei modelli più alti della vicenda figurativa europea, compulsati nei musei. In questi appunti la sua Alice (1962-’63), costruita con tratti di pastello a cera dagli accenti damascati aragosta, è «vestita da infante», quasi a gara con la Margarita di Velázquez: anche perché, le due fanciulle, ugualmente nobili, occupano con pari piglio padronale il campo pittorico. Per Arco Kodiak Special (1965-’66) il rimando, invece, è ai colletti di Rembrandt: un riferimento, ovviamente, non iconografico, ma di luce e di equilibri tonali all’interno dell’acrilico.
L’intelligenza figurativa di questi passaggi diventa sistema creativo a partire dagli anni ottanta: un ritorno al mestiere, lontano dal mainstream, inaugurato dal disegno e dalle matite colorate, muovendosi all’inizio in un ambito quasi neocaravaggesco, per poi, nei formati monumentali del decennio successivo (ad acrilico e a olio) arrivare a dichiarare con autorità la propria appartenenza alla tradizione più alta della pittura. Devalle non ‘cita’, ma condivide, rielabora e crea qualcosa di inedito, che non è neo-pop art, perché non è contingente. Le tangenze, i prelievi dall’antico al contemporaneo non sono dati sommati, ma si fondono in una sintesi vitale che non prescinde mai dai contesti. In Naked Truth (2012), la figura femminile accasciata è una squisita creatura giottesca (finanche nel contorno bruno del volto, nel labbro superiore leggermente più scuro, secondo soluzioni figurative che sembrano apprese parola per parola da Cennino Cennini), perfettamente a suo agio nel «quadro d’altare» (così Sandra Pinto) in cui è collocata. In queste opere monumentali, che devono essere viste dal vero, il problema per Devalle, novello Giulio Romano, è quello dello spettatore, della sua posizione davanti alle tele, del suo coinvolgimento, proprio mentre John Shearman, negli stessi anni, in Only Connect, stava spiegando agli storici d’arte quanto questo aspetto fosse fondamentale per i pittori del Rinascimento.
E centrali diventano anche, per Devalle (o almeno così mi sembra), i ‘generi’ della pittura, in un contesto che non è più parzialmente geografico o storico, ma è quello di una cultura visiva dilatata, che va dal Medioevo devoto ai rotocalchi più alla moda, nella quale l’artista ha messo a fuoco lucidamente il proprio ruolo e i fondamenti della propria arte. Muoversi all’interno dei generi della pittura, ripartire da essi significa dare ordine alle cose, moltiplicare le possibilità espressive, innescare raffinati e colti cortocircuiti visivi. In Happy Times siamo sollecitati a cercare valenze simboliche nel fiore di campo in mano ad Edoardo Agnelli, perché così siamo abituati a fare da anni di studi di storia dell’arte, quando a giocare con piccoli oggetti, uccellini e melograni è Gesù in grembo alla Vergine: moderna Madonna con Bambino, l’opera di Devalle inscena una tragedia ricorrente e senza tempo. Happy Times apre il percorso della mostra ed è affiancato, in una bella quadreria seicentesca, da una serie di ritratti neorinascimentali, dalla tecnica ineccepibile. Nella sala successiva troviamo delle Nozze mistiche (in Marry me, con Simone Weil e Jesus), forse un Concerto campestre (in Play off, con Haring e Picasso), di certo un’Ultima cena. Assiduo frequentatore di Brera, con i suoi Rubens e Caravaggio, Devalle in Last Supper (2011) non mostra però agnizioni divine, nessuna rivelazione e salvezza. Warhol, Kate Moss e Cattelan non creano e non assistono a miracoli, guardano fuori dall’opera, verso il pubblico, a caccia di consensi e legittimazioni.