Davvero emblematica, per svariati aspetti, la notizia che Alfonso Gianni ci racconta su il manifesto del 1 marzo: una multinazionale cinese, grazie a processi produttivi automatizzati spinti, produrrà negli Stati Uniti 23 milioni di t-shirt all’anno, una ogni 26 secondi, al prezzo di 33 centesimi di dollaro.

Ma, se indaghiamo bene, ciò avviene sempre più frequentemente in ogni parte del mondo per l’intera gamma dei prodotti di largo consumo.

È l’effetto della quarta o quinta – in realtà permanente – rivoluzione industriale che decuplica la produttività dei macchinari sempre più complessi, intelligenti, evoluti.

Potremmo esserne contenti: chi non vorrebbe lasciare ai fantomatici robot i lavori più gravosi e ripetitivi e trovare al supermercato prodotti sempre più economici? Dove stanno i problemi, allora? Proviamo a segnalarne qualcuno.

Quelle t-shirt, quelle scarpe pressofuse, quegli schermi piatti a stampo, quei giocattoli tecnologici, quegli innumerevoli oggetti a (relativo) basso costo di cui ci contorniamo e che ci fanno sentire così simili ai nostri simili, hanno bisogno di essere «assorbiti» nei mercati in grandi quantità.

Ma come trovare compratori solvibili (va bene anche se indebitati) se la platea dei potenziali acquirenti diminuisce perché si riduce il volume del reddito generato dal lavoro retribuito a causa proprio dei processi produttivi labour saving, a risparmio di forza lavoro?

Non è un equilibrio facile da trovare tra «distruzione» e «creazione» di posti di lavoro, nelle diverse aree geografiche, tra le varie qualifiche e classi di lavori.

Non c’è solo un problema di distribuzione (possibilmente equa) della ricchezza socialmente prodotta.

Per far «girare l’economia» sempre più vorticosamente serve alimentare la macchina produttiva con flussi di energia e di materie estratte dai corpi naturali sempre maggiori. Leggo e traduco dall’ultimo (2016) rapporto disponibile dell’International Resource Panel (Unep): «La quantità di materie prime estratte dalla Terra è passata da 22 miliardi di tonnellate nel 1970 a ben 70 miliardi di tonnellate nel 2010 (…) entro il 2050 i nove miliardi di persone del pianeta richiederebbero 180 miliardi di tonnellate di materiale ogni anno (…) quasi tre volte l’ammontare di oggi».

Al vertice della classifica dell’uso di materiali pro-capite sono, ovviamente, il Nord America e l’Europa (25 e 20 tonnellate rispettivamente). La Cina ne ha 14. L’America Latina 10. L’Africa 3.

Sto facendo, evidentemente, un discorso molto grezzo: un conto è estrarre dalle viscere della Terra ferro e carbone, un altro legname, un altro ancora litio, cobalto, antimonio, tantalio, tungstenio, berillio, neodimio … Ne sanno qualcosa in Congo dove (leggo su Nigrizia) 100 gruppi armati per conto delle imprese minerarie straniere si contendono il controllo delle risorse minerarie.

So bene che bisognerebbe anche fare un bilancio accurato dei flussi di materia in uscita sotto forma di rifiuti, residui, emissioni.

Scopriremmo, inevitabilmente, che nonostante la crisi e i bei proclami («economia circolare», «efficientizzazione», «disaccoppiamento», «smaterializzazione», ecc.), le emissioni di gas climalteranti (generati dall’uso di combustibili fossili, dagli allevamenti intensivi, dai disboscamenti ecc.) continuano a macinare record: siamo giunti lo scorso anno a 403,3 parti per milione di CO2.

Abbiamo modificato la composizione chimica dell’atmosfera com’era qualche milione di anni fa, peccato che allora i livelli dei mari fossero di 10 o 20 metri superiori. Il Cnr ha calcolato che nella mia città, Venezia, il livello medio del mare si alza di 5,6 millimetri ogni anno: 12,3 centimetri negli ultimi 22 anni.

Non è sbagliato affermare che il «capitalocene» è l’era della distruzione deliberata delle strutture vitali e funzionali del pianeta.

Chiediamoci allora a cosa ci servono i 23 milioni di t-shirt cinoamericane o, per fare un altro esempio vicino a noi, i 19 milioni di smartphone immessi sul mercato l’anno scorso in Italia (durata media 3 anni).

Non c’è solo il problema di quanti e quanto e dove andiamo a lavorare per quanti soldi in busta paga.

C’è un problema ancora più grande, squisitamente politico, non solo redistributivo, di chi decide cosa produciamo, per soddisfare quali esigenze.