«Benvenuti nel 2047», ironizzano con amarezza gli attivisti di Hong Kong, riferendosi all’anno in cui la città completerà la sua transizione al controllo cinese.

Nel Consiglio legislativo regna l’incertezza su chi occuperà i seggi del parlamento locale, dopo la decisione della Chief Executive Carrie Lam di rinviare di un anno le elezioni legislative originariamente calendarizzate il prossimo 6 settembre. Gli abitanti di Hong Kong dovranno recarsi alle urne il 5 settembre 2021, con la speranza di aver lasciato la pandemia alle spalle.

La governatrice della città, la scorsa settimana, ha deciso di spostare l’appuntamento elettorale a causa della grave situazione sanitaria nell’ex colonia britannica, forte anche del sostegno del governo centrale.

Negando qualsiasi motivo politico, Lam ha fatto appello ai poteri di emergenza propri dell’Emergency Regulations Ordinance dell’era coloniale, lasciando ampi poteri decisionali a Pechino su come colmare il vuoto normativo e aggirare i limiti previsti dalla Basic Law: per l’articolo 69 della mini costituzione, la legislatura ha una durata massima di quattro anni.

Spetterà alla Cina emanare nuove direttive che saranno probabilmente discusse dal Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo dall’8 agosto.

Ieri il portavoce del ministro degli Esteri cinese, Wang Wenbin, ha chiarito la posizione di Pechino sul rinvio del voto, ritenendo la disposizione una misura legittima per proteggere la sicurezza e la salute degli hongkonghesi, garantendo le elezioni in modo sicuro ed equo.

L’ennesimo colpo all’apparato democratico della città è arrivato già quando le autorità di Hong Kong avevano squalificato dalla competizione elettorale 12 candidati dell’opposizione, tra cui Joshua Wong, l’ex leader dell’ormai smantellato partito Demosisto.

La strategia della massima pressione esercitata dal governo centrale ha portato a un susseguirsi di arresti, controllo e censura dei profili social e accuse di secessione a chi ha scelto la via dell’auto esilio. Le autorità di Hong Kong hanno infatti emesso un mandato di arresto nei confronti dell’ex funzionario del consolato britannico Simon Cheng, dell’esponente politico Nathan Law, volato nel Regno unito, e del cittadino americanizzato Samuel Chu: tutti imputati per aver violato la nuova legge sulla sicurezza nazionale.

Tra gli esiliati, molti hanno preso la difficile decisione di interrompere qualsiasi rapporto con i parenti che si trovano ancora nell’ex colonia britannica, nel tentativo di proteggerli da qualsiasi atto di pressione psicologica e fisica esercitata dal Partito comunista cinese.

Agli occhi dell’opposizione hongkonghese sembrano manovre tese a ridurre la popolarità del fronte pro democratico, accresciuto dopo il trionfo delle elezioni distrettuali dello scorso anno.

Il voto posticipato al prossimo anno ha alienato al regime comunista le poche simpatie internazionali. Come Stati uniti, Regno unito e Australia, anche la Nuova Zelanda e la Germania hanno sospeso gli accordi di estradizione con Hong Kong.

L’Unione europea, che vuole far sentire la sua voce, ha limitato le esportazioni di tecnologia e attrezzature che possono essere usate in maniera repressiva dalla polizia, oltre a rivedere i trattati di consegna degli imputati.

Al momento la priorità del Pcc sembra essere la lotta al Covid-19 dopo i nuovi casi a Hong Kong. Domenica dalla provincia cinese del Guangdong è arrivato il primo gruppo dei 60 esperti sanitari che effettueranno tamponi ai residenti della città: la richiesta, giunta direttamente dalla Chief Executive, non è piaciuta a molti residenti che temono che i test serviranno a raccogliere campioni di Dna ai fini di sorveglianza.

A nulla servono le rassicurazioni del governo locale, secondo cui i campioni non saranno trasferiti in Cina. Gli abitanti di Hong Kong sentono già di vivere nel 2047.