All’inizio, di fronte a quel cartello disorientante, si pensa di aver letto male un’indicazione stradale, di averla rivisitata con troppa fantasia. Invece, è proprio così: in un angolo panoramico del Gianicolo, è apparso d’improvviso un Paesaggio con caduta di Icaro. A seminare messaggi fuorvianti e a giocare liberamente con il linguaggio imprigionato nel senso comune, è l’artista di Malaga Rogelio López Cuenca che con la mostra A quel paese sbarca per la prima volta con una retrospettiva in Italia, presso l’Accademia di Spagna a Roma (a cura di Anna Cestelli Guidi, fino al 27 giugno).
La sua città natale lo fa impigliare anche in esercitazioni ludiche sulla moltiplicazione iconica dei Picasso, mentre quando al centro ci sono le affissioni pubblicitarie, l’ambiguità semantica e visiva sostituisce il messaggio, risvegliando menti intorpidite. D’altronde, López Cuenca è filologo, poeta e artista, abituato fin dagli anni 70 a scompigliare la lettura univoca della realtà. E le sue cartografie alternative testimoniano la volontà di una revisione della Storia ufficiale e delle architetture di potere.

Nelle sue installazioni, le parole riproducono linguaggi noti – pubblicità, segnaletica urbana, ma anche versi di poeti del passato – proponendo spiazzamenti che interrogano la conflittualità del presente. Si sente rappresentato da questa definizione?
Sì, mi interessa contestare l’idea egemonica della poesia intesa come mero testo, che ignora le esperienze ibride, liminali, avanguardiste e neoavanguardiste. Sono disprezzate, incasellate come mode fugaci di fronte a una presunta atemporalità del genere, nell’illusione di coltivare un distacco dalla «conflittualità del presente». Non si può cancellare ingenuamente la sua perversa e multiforme complessità.

Come ha scelto i luoghi per disseminare «segnali» a Roma?
Partendo dal presupposto che lo spazio pubblico è un ambiente in cui si possono verificare situazioni imprevedibili, i luoghi vengono scelti in relazione all’opera da inserire, perché offrono un grado di tensione inaspettato: nella creazione di un significato «altro» il ruolo di chi guarda e legge il segnale è decisivo. Nel caso di Paesaggio con la caduta di Icaro potrebbero esserci passanti che non sanno nulla di quel mito, o del dipinto di Brueghel, o della poesia di W.H. Auden, ma la maggior parte di loro sa cosa sia un paesaggio e conosce «l’autorevolezza» della segnaletica pubblica in un dato contesto. L’idea non è solo quella di provocare una riflessione (l’invenzione del paesaggio secondo il gusto imposto dalle classi dominanti, i riferimenti agli «old masters», ecc.) ma soprattutto sottolineare che il fallimento delle utopie si è inverato a causa della loro invisibilità. Nella dimensione quotidiana, il «panorama mozzafiato» della città nasconde violenza di classe, di genere, razzismo, colonialismo: sono gli elementi sostanziali della mitologia su cui si fonda la modernità occidentale.

Il poster «Benvenuti» è un sarcastico atto di accoglienza che rimarca, invece, la politica dei respingimenti europea. Pensa che dopo la pandemia qualcosa possa cambiare nell’immaginario dei confini?
Le crisi del sistema capitalista sono inerenti al suo stesso funzionamento e offrono l’opportunità di una soluzione progressiva o regressiva. Il fatto che la via d’uscita imbocchi una direzione o un’altra sarà dirimente per il nostro modo di rapportarci – da un punto di forza o debolezza – all’interno della lotta di classe. La pandemia evidenzia le contraddizioni insite nelle logiche del capitalismo – i brevetti dei vaccini, per esempio – ma anche quelle della Fortezza Europa e infrange la fantasia neocoloniale del Nord globale quando – per ricorrere a Brecht – «nessuno può salvarsi da sé».

In un pannello esposto all’Accademia di Spagna, c’è una cartina rovesciata (terre blu, mare verde). Ritiene che geografia e atlanti siano atti non neutrali?
Da tempo viene denunciato il mancato adeguamento alla realtà delle mappe del mondo con cui abbiamo a che fare (a scuola, nelle agenzie di viaggio, su Google…). Deve essere chiaro però che queste non hanno lo scopo di riprodurre la realtà, ma di costruirla: disegnano il quadro concettuale attraverso cui viene decretata una gerarchia che determina come immaginiamo il mondo e come ci poniamo noi in esso. Nella mia cartina rovesciata, il testo evidenzia la stessa idea: i nomi riportati formano un verso del poeta cileno Vicente Huidobro: «Che sorga quel continente da tanti anni atteso». Huidobro è stato il perno del Creazionismo, un movimento d’avanguardia che incoraggiava i poeti non a «cantare la rosa» ma a «farla sbocciare nella poesia».

Come nasce «No(w)here» (a Roma presso la Fondazione Baruchello, «ndr»), rappresentazione grafica della linea della metropolitana con una serie di «stazioni» storiche, semiotiche e sentimentali?
È un tentativo di testare la possibilità di una poesia in cui le immagini (ferme e in movimento) siano rilevanti quanto il testo, ma vuole anche essere una poesia che – con la metafora del viaggio – esige di essere percorsa, si modella proprio in quel «camminare attraverso». Il titolo è una sfida, un calembour; in questo caso, include anche il suo opposto: l’avverbio inglese nowhere per dire da nessuna parte è, in realtà, formato dall’unione di «now» e «here», ora e qui. Parole e immagini non sono definitive. Il loro significato è una convenzione sociale, collettiva, politica. Siamo dentro un territorio dinamico, in evoluzione.

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Può illustrare il suo prossimo progetto?
Insieme a Elo Vega – artista con cui collaboro frequentemente – stiamo lavorando a una rilettura critica, per immagini, della narrativa idealizzata che connota l’imperialismo e il colonialismo spagnolo; una pomposa retorica di gloria ed eroismo che la dittatura franchista è riuscita a inculcare nell’immaginario per far sembrare naturale il suprematismo razzista e sessista, che poi ritroviamo alla base delle politiche di discriminazione e criminalizzazione delle migrazioni contemporanee.