La conferma che le dimissioni di Marco Bentivogli da segretario generale della Fim Cisl siano state inaspettate è duplice. Il suo nome campeggia ancora nel volantino preparato venerdì mattina per la manifestazione nazionale unitaria con Fiom e Uilm a Roma a piazza del Popolo per giovedì prossimo sulle «100 vertenze da risolvere» in cui addirittura Bentivogli avrebbe dovuto tenere il comizio di chiusura. Ieri poi sono usciti ben due articoli a sua firma: uno sul Sole24Ore e uno sul Riformista in cui scriveva ancora da segretario.
Da tempo però Bentivogli era in difficoltà sia nei confronti della Cisl – il manifesto è stato il primo a dare notizia della lettera di oltre 40 dirigenti confederali contro la sua «bramosia di apparire» – che all’interno della stessa Fim. L’elenco degli “epurati” e dei territori che ormai apertamente contrastavano il segretario generale è lungo: solo negli ultimi anni Bentivogli ha fatto fuori molti dirigenti (via la segretaria nazionale Anna Trovò che si occupava di contrattazione, deleghe depotenziate per Ferdinando Uliano che si occupava di Fca e Michele Zanocco, sostituiti ben due segretari organizzativi…) facendo terra bruciata intorno a chi osava avere una opinione propria e non combaciante con la sua. Bentivogli ha trasformato la storica Fim di Pierre Carniti in un sindacato a sua immagine e somiglianza. Nessuno prima di lui ha avuto uno staff proprio separato dal sindacato e una conduzione personalistica e totalizzante di ogni decisione sul territorio.
Negli anni della divisione con la Fiom la sua ossessione era il successo mediatico di Maurizio Landini. Riuscito faticosamente a ritagliarsi uno spazio come suo alter ego riformista, Bentivogli ha fallito nel passaggio a segretario generale della confederazione, Landini ha vinto – da sindacalista – lo scetticismo e la contrarietà di buona parte dell’organizzazione. Bentivogli invece verso la Cisl si è posto sempre sul piedistallo, venendo percepito come un corpo estraneo.
È dunque sindacalmente che il lascito di Bentivogli risulta in grave passivo. Primo entusiasta della «rivoluzione di Marchionne», Bentivogli ha cavalcato la rottura con la Fiom dovendo poi subire la sconfitta del ritorno dei metallurgici Cgil prima per la sentenza della Corte costituzionale (dopo tanti altri pronunciamenti favorevoli alla Consulta giuridica della Fiom) e poi il riscatto del sindacato di Landini nelle piazze e nelle urne delle Rsu e delle Rls. Da lì arrivò la tregua che portò al contratto nazionale unitario dei metalmeccanici (2015) e al ritorno della Fiom a pieno titolo nelle fabbriche Fca.
L’ultima sconfitta è nella piattaforma del rinnovo dei metalmeccanici (la trattativa ripartirà questa settimana) in cui Bentivogli ha dovuto accettare una richiesta di aumento salariale (l’8%) per lui inusitata (proponeva il 3,2%) e la rinnovata centralità del contratto nazionale stesso, tanto da ricevere critiche perfino dagli amici liberisti.
Ora Bentivogli dice al Corriere – suo grande sponsor – che si dedicherà «a terminare il libro» a cui sta lavorando, attività che prima conduceva in parallelo alla guida della Fim: ha mandato alle stampe tre saggi in tre anni. È chiaro però che Bentivogli stava da tempo lavorando al suo futuro. Come lui stesso scrive nella lettera di commiato: ha 50 anni e senza la prospettiva della segreteria Cisl, la sua carriera sindacale era già finita. La verità plastica è nelle mancanza di reazioni da parte della categoria che Bentivogli doveva rappresentare: gli operai. Non si hanno notizie di manifestazioni di solidarietà nelle fabbriche lungo la penisola.
L’ultima sua battaglia sindacale sarà quella di cercare di scegliere il suo successore: il fido Valerio D’Alò, già promosso da Taranto a segretario nazionale. Difficile però che ci riesca. Molto più probabile che ascolti una delle tante sirene politiche che lo consigliano, a partire da quel Carlo Calenda che lo loda giornalmente e con cui condivide tanti flop: dal primo piano per Taranto al salvataggio Embraco, finito in bancarotta. Più difficile – come maligna qualcuno – che Bentivogli finisca a lavorare per la controparte industriale. Ma mai dire mai: ha più amici imprenditori che operai.