Nello scorrere dei secoli gli archivi sono nati in tanti modi e tempi diversi: per volere dei monarchi, per scelta delle istituzioni, per lo spirito di volontà di istituti e fondazioni pubbliche che lavorano sulle carte di figure importanti della storia, della politica, della cultura.
Si verificano casi, invece, in cui un archivio nasce e prende forma «dal basso», senza un criterio rigidamente «ufficiale», per opera di chi, pur avendo vissuto la propria esistenza in una misura sia pubblica che privata, non avrebbe pensato che quei suoi ricordi sarebbero divenuti strumento di conoscenza del tempo storico.

SONO PASSATI circa vent’anni dal primo incontro con Rosario Bentivegna nella sede di un partito politico all’estrema periferia est di Roma. Per meglio dire, eravamo in una sezione del «Partito», come erano adusi chiamarlo lui e tutte le persone che ne avevano fatto parte vivendolo ed intendendolo come «una specie di Paese nel Paese, – amava dire Pier Paolo Pasolini – una specie di Paese pulito e morale in un Paese sporco e profondamente immorale».
Era in programma un dibattito sulla Resistenza con un intervento del partigiano «Paolo» (questo il nome clandestino di Bentivegna durante l’occupazione nazista di Roma) annunciato da manifesti affissi in tutto il quartiere. La storia di Bentivegna era notissima. Comandante dei Gruppi d’Azione Patriottica (Gap) del Partito Comunista, pluridecorato con medaglie al valor militare per la Lotta di Liberazione, aveva combattuto il nazifascismo non solo a Roma (dove tutti ancora oggi lo ricordano come il partigiano che fece esplodere la bomba che colpì e scompaginò un intero reparto tedesco in transito in via Rasella il 23 marzo 1944) ma anche sui Monti Reatini prima ed in Jugoslavia poi.

Rosario Bentivegna

Dopo il colpo di Stato del colonnello Georgios Papadopulos nel 1967, Luigi Longo lo aveva inviato in Grecia e, con una barca, Bentivegna aveva compiuto più volte missioni segrete di salvataggio dei dirigenti antifascisti perseguitati dalla dittatura, trasportandoli clandestinamente in Italia.
Per la sua attività partigiana e soprattutto per l’attacco di via Rasella (la più importante azione di guerra eseguita dalla Resistenza europea in una capitale occupata, cui i nazifascisti fecero seguire per vendetta la strage delle Fosse Ardeatine) lui ed altri gappisti avevano subito diversi processi da cui erano usciti sempre assolti e con il riconoscimento della legittimità della loro azione.

Quando ci incontrammo nei locali della sezione il suo «Partito» aveva già cambiato nome e forma ed io ero uno studente universitario «estremista» che, pur vivendo in quella periferia fin dalla nascita, mai sarebbe entrato in quella sede se non per incontrare un personaggio come lui. La sua persona e la sua storia trasmettevano rispetto e ammirazione. Finito il suo intervento iniziammo una discussione che quasi subito si trasformò in un dialogo. Di quell’incontro turbolento e straordinario non dimenticherò mai due momenti.
Il primo fu il suo modo di rispondere ad una mia osservazione polemica nei confronti del suo «Partito», che pure egli stesso non mancava di sottoporre all’esercizio della critica: «Guarda ragazzì – mi disse in romanesco -, tu voi fa’ il provocatore, ma io posso esse più provocatore de te».

ERA, QUELLO, il fare proprio dei dirigenti che, con una storia politica intrecciata a quella dei ceti popolari, si relazionavano ad essi senza il bisogno di doverne assecondare le pulsioni inconsulte per non perderne il consenso. Era il suo vissuto a conferirgli autorevolezza e stima in tutta la periferia est della capitale. Nelle borgate romane del Quadraro, del Quarticciolo, di Centocelle, di Gordiani e di Torpignattara, Rosario Bentivegna aveva combattuto la Resistenza e poi nel dopoguerra era tornato a fare il suo lavoro: il medico. In quella veste aveva curato casa per casa quel proletariato e sottoproletariato urbano di Roma che all’epoca viveva nei tuguri e nelle baracche di cui ci avrebbero raccontato i nostri nonni.

L’altro momento indimenticabile fu il suo avvicinarsi alla fine dell’incontro porgendomi un biglietto da visita: «Questo è il mio indirizzo di casa. Se ti va, vieni domani». Era incuriosito e per nulla disturbato dalla nostra discussione vivace, non retorica e anche un po’ impertinente. Amava parlare con i giovani senza l’enfasi celebrativa in cui la Resistenza è spesso costretta nelle cerimonie ufficiali.
L’indomani ero a casa sua e ad accogliermi con lui c’era la sua compagna Patrizia, una donna colta ed elegante che con discrezione controllava quelle nostre prime lunghe conversazioni. Suo padre, Antonio Toraldo di Francia, era stato partigiano monarchico insignito di medaglia al valor militare per la Guerra di Liberazione, prima dal re e poi dal Presidente della Repubblica. Da quel giorno e per tutti i successivi anni coltivammo questa nostra amicizia, «sbilanciata» per età ma sempre più solida, forte e stretta per affetto.

LA CASA di Bentivegna era piena di libri e documenti. Li aveva raccolti nel corso della sua vita in gran parte per difendersi nei tanti processi che dal 1948 aveva dovuto affrontare per sostenere la legittimità della storia dei Gap. Erano carte personali ma raccontavano molto anche dell’Italia del dopoguerra: la durezza della lotta antifascista; l’asprezza della vita in clandestinità; la ricostruzione del Paese; il «processo alla Resistenza» negli anni duri della repressione del ministro dell’Interno Mario Scelba; il «Piano Solo» del 1964 che avrebbe previsto la deportazione sua e di centinaia di altri dirigenti socialisti e comunisti nella base di Gladio a Capo Marrargiu in Sardegna; la tumultuosa avanzata del movimento operaio e la risposta terroristica della strage di Piazza Fontana.

Nacque così l’idea di fare di quelle casse di documenti privati un archivio pubblico da collocare nel luogo più istituzionale possibile, il Senato della Repubblica. Una forma di legittimazione della storia sua e dei suoi compagni di lotta. In ragione del loro particolarissimo vissuto i gappisti avevano continuato a sentirsi, anche nei decenni dopo la guerra, una piccola comunità a sé stante in grado di comunicare con uno sguardo, con parole essenziali o silenzi esplicativi. Conquistare la loro fiducia non era semplice, ma dopo la scelta di Bentivegna riuscimmo a portare nell’Archivio Storico del Senato anche le carte di Carla Capponi, Lucia Ottobrini e Mario Fiorentini cui si aggiunsero, per merito della figlia Silvia, i documenti di Franco Calamandrei e Maria Teresa Regard.

L’ARCHIVIO DEI GAP centrali di Roma (i più processati, accusati e calunniati tra i partigiani) è oggi conservato nel cuore delle istituzioni della Repubblica come per catarsi della storia. Guardando i faldoni allineati nelle sale eleganti del Senato che riportano impressi i nomi dei figli migliori di Roma, ogni volta viene da pensare che quel luogo custodisca, insieme alle carte, un inestricabile nesso valoriale tra il passato recente e il complesso presente. Con il silenzio delle sue sale, che fissa una separazione netta dall’insostenibile rumore di una modernità che appare senza storia, l’archivio delle donne e degli uomini dei Gap di Roma riconnette il nostro tempo contemporaneo ad un orizzonte di senso e ad una lettura delle «cose del mondo» sempre rivolta al futuro, anche quando questo appare più incerto e fosco: «Ero arrivato al comunismo – scrive Bentivegna – in giovanissima età, durante il fascismo trionfante, alla ricerca di quelle libertà che configuravano per me la pace, avevo accettato il comunismo come strumento che mi sembrava più efficace per trasformare quella ricerca in lotta. Questa ricerca non l’ho mai abbandonata, in tutto il mio “secolo breve”, e nemmeno la voglia di lottare per questa libertà».