Ci sono date, nella storia della musica, che segnano realmente la pietra di confine tra un prima e un dopo, al di là di tutte le convenzioni cronologiche. Succede quando un evento in pubblico finisce per assumere il carico di valenze estetiche, di messe a fuoco di un intero periodo, un apice da tutti riconosciuto o avvertito come tale che al contempo annuncia, quasi sempre malgrado sé stesso, la propria fine. Nella storia delle musiche afroamericane colte e popular assieme c’è solo l’imbarazzo della scelta.

Qualche esempio? Il concerto del 14 giugno 1979 a Milano per l’appena scomparso Demetrio Stratos. Sarebbe dovuto servire a raccogliere fondi per curare il cantante e ricercatore sulla vocalità, finì per essere un omaggio: marca indelebilmente la fine dell’epoca storica del «progressive rock» italiano in ogni sua diramazione stilistica. Oppure la data d’addio di The Band alla Winterland Arena di San Francisco del 1976 filmata da Martin Scorsese in The Last Waltz, che ci racconta il radioso crepuscolo di quanto, da qual momento, sarebbe stato conosciuto come «classic rock», rock storicizzato, innescando una silente eppure clamorosa rincorsa alla «retromania». E via citando.

Se si dovesse scegliere una data e una sola per identificare invece cosa rappresentò appieno la «Swing Craze», la follia collettiva per lo swing che mise in fiamme piedi, cuori e teste dell’America a stelle e strisce di Franklin Delano Roosevelt, ottant’anni fa, si arriverebbe sempre al medesimo punto: c’è una data e un giorno in cui le caratteristiche più evidenti di quella diramazione vincente del jazz sviluppatasi nel clima di arrembante riscatto sociale del «New Deal» sono davvero nelle orecchie e sotto gli occhi di tutti.

La data è quella 16 gennaio 1938, il luogo è la Carnegie Hall di New York. Il protagonista assoluto un musicista bianco di origine ebraica, come centinaia di altri protagonisti di primo piano della storia del jazz, che aveva avuto il fiuto, la tenacia assoluta e la determinazione per svettare in un mondo veloce e competitivo come quello delle big band della Swing Era: Benny Goodman.

UN RE NEL TEMPIO

Lo swing era forza dirompente, negli anni Trenta di New York, di Chicago, di Kansas City, di Detroit: città febbrili e sempre sveglie che ospitavano decine di sale da ballo, biglietti a prezzo popolare, una sicurezza decisamente non paragonabile con quella dei vecchi club gestiti da mafiosi nel proibizionismo (finito nel ’33). E poi l’avvento di un pubblico di adolescenti e giovanissimi scolarizzati e legati da un nuovo vincolo generazionale che avevano imparato ad apprezzare e riprodurre i passi acrobatici del Lindy Hop che gli afroamericani ballavano da almeno un decennio al Savoy Ballroom, e che, spostando il mirino cronologico di altri tre lustri dal concerto di cui si tratta, diventeranno la base delle danze rock’n’roll.

Leggenda vuole che Benny Goodman, quando gli venne proposto di portare la sua ormai celeberrima orchestra swing nel tempio della musica classica della buona borghesia newyorkese la prese a ridere. Aveva già tutto, a ventinove anni, il ragazzo figlio di poveri immigrati ebrei: la fama di essere il «Re dello Swing» (così si chiamò peraltro il film sulla sua vita), un eroe nazionale dei programmi radiofonici che tenevano l’America incollata alle radio, un musicista rispettato e imitato. Gli aveva dato una bella mano un ragazzo giovane, di ricchissima famiglia, fervente socialista e inguaribile ottimista, che si chiamava John Hammond: sì, proprio il futuro «scopritore» di Bob Dylan e Bruce Springsteen. Hammond gli aveva fatto contattare quel prodigio di chitarrista che era Charlie Chistian, Hammond gli aveva fatto conoscere il vibrafonista Lionel Hampton e il pianista Teddy Wilson, sempre lui gli aveva suggerito di adottare per la sua Big Band gli arrangiamenti precisi, filanti e spettacolari che un altro bandleader afroamericano un po’ in disgrazia, in quel momento, Fletcher Henderson, concesse volentieri, per una boccata d’ossigeno di buoni dollari. E dunque: lo swing che entra nel tempio esclusivo della musica classica . Con una band in cui si vedono assieme fianco a fianco sul palco (grande scandalo!) neri e bianchi.

2760 posti disponibili, biglietti a 2,75 dollari, non poco: tutti esauriti settimane prima di quella data rimasta a memoria , il 16 gennaio. Davanti alle porte della Carnegie, tanto per fare un po’ di memoria, ci sono gruppi di sostenitori dei repubblicani spagnoli, impegnati a raccogliere fondi per sostenere le brigate internazionali: li ha voluti Goodman stesso, che già l’anno prima, nel ’37, aveva partecipato a un concerto per il sostegno agli antifascisti nella guerra di Spagna. Goodman fa parte (come Ellington, come Teddy Wilson, come Hampton) del Comitato dei Musicisti in aiuto della democrazia spagnola: un particolare poco conosciuto, diluito e dilatato nella narrazione mielosa e pacificante dello swing filtrata da Hollywood. Poi, via alla musica: Goodman s’era preparato la serata con attenzione, chiedendo aiuto e presenza agli altri colleghi ai vertici del gradimento pubblico, e inserendo perfino un siparietto Dixieland tanto per fornire qualche chiarimento al pubblico sull’evoluzione e la storia (allora inesistente!) del jazz, iniziata discograficamente nel 1917.

JAM SESSION

Inizia lui con la sua orchestra, poi è la volta di formazioni a tre e a quattro scatenate, a metà serata l’allibito pubblico della Carnegie «classica» assiste a una vera e propria jam session, con musicisti che arrivano dalle fila di Ellington (Harry Carney, Johnny Hodges), Count Basie (Lester Young, Buck Clayton, lo stesso «Conte» in persona dietro il piano), dalla band di Goodman: quindici minuti radianti di Honeysuckle Rose, e il pubblico – pare ci fosse anche un giovanissimo Robert Mitchum, tra i paganti – comincia ad agitarsi sulle poltrone. Quando l’orchestra di Benny Goodman torna sul palco, per preparare la volata finale, la gente ha già cominciato a ballare tra le file.

Goodman infiamma l’immensa sala, dà il segnale, e parte la trascinante Sing, Sing , Sing, scritta da Louis Prima: i fiati in assolo accendono e accompagnano il crescendo, tutto appannaggio del tambureggiare virtuosistico di Gene Krupa per un assolo che ha un misterioso «quid» attrattivo in più. Krupa s’era ascoltato attentamente una serie di registrazioni di percussionisti congolesi e quella sera gli sgorgano dalle bacchette figurazioni ritmiche Bantu. Va a finire che prende un assolo incontenibile anche il pianista Jess Stacy, poi sipario e bis, la gente è tutta in piedi in un mare di sudore.

Parte Big John’s Special, arrangiamento dalla penna fatata di Fletcher Henderson, ed è un’apoteosi. I fuochi d’artificio dello swing hanno acceso l’ultima fiammata: adesso è tempo di un nuovo jazz, i giovani bopper scalpitano già nelle fila delle orchestre swing, e sarà loro il futuro, cercato nei localini della Cinquantaduesima strada. Per fortuna però qualcuno ha registrato il concerto apogeo, non resterà solo il ricordo di chi c’era o aveva la radio accesa. Gli acetati incompleti li ritrova la cognata di Goodman in un armadio, una dozzina d’anni dopo: quando esce il Carnegie Hall Concert, nel ’50, è uno dei primi ellepì a superare il milione di copie. Poi saltano fuori le registrazioni complete su master in alluminio: inizio di una ennesima riscoperta e della fama del concerto su cd: edizioni nel ’98, nel 2002, nel 2006, finalmente complete. Lo swing ha il suo sigillo finale.