Il veleno della vita, ecco l’elisir dei romanzi di Philip Roth: la vena aurea dei cattivi sentimenti, il suo insaziabile appetito di vendetta, la proiezione delle più disdicevoli intenzioni sui suoi personaggi. Non molto è filtrato dell’uomo Roth, finché era vivo, non dalla sua voce, almeno: qualche sporadica rivelazione circa i suoi romanzi, smentite di fatti mai accaduti, proteste contro le accuse di antisemitismo, o di misoginia. Diceva di sé di essere una discreta via di mezzo tra l’aggressività esibizionista di Mailer e la maniacale ritrosia di Salinger. Amava la riservatezza ma non ne faceva «un feticcio sacro e inviolabile», e tuttavia – a parte il catastrofico resoconto coniugale della sua seconda moglie, Claire Bloom – non si è saputo molto di ciò che gli passava per la testa prima di tradursi in finzione.

L’incontro nel 1995
Non ne parla la biografia di Claudia Roth Pierpont e quella di Blake Bailey, autorizzata dallo stesso scrittore americano, è stata immediatamente ritirata dall’editore per deprecabili motivi di correttezza politica; ma arrivano ora un centinaio di calorose, equilibrate, intelligenti pagine a firma di Benjamin Taylor, Siamo ancora qui La mia amicizia con Philip Roth (ottima traduzione di Nicola Manuppelli, Nutrimenti, pp. 106, € 15,00) in cui è sintetizzato ciò che più conta del romanziere americano. L’incontro tra i due scrittori avvenne in occasione del compleanno di un comune amico nel 1995, l’anno in cui uscì Il teatro di Sabbath: «Quella sera Philip era tutto velocità e risate – la testa buttata all’indietro – e un talento soprannaturale per la battuta immediata».

Tre anni di silenzio, in cui l’esortazione a rivedersi non ebbe seguito, poi Roth pubblicò Ho sposato un comunista, Taylor gli scrisse, e la loro amicizia, fatta di esplosive conversazioni, cominciò: «Il grado di attaccamento ci sorprese entrambi».

La significatività di quanto veniamo a sapere di Philip Roth è illustrativa del suo animo vulcanico, della sua sbalorditiva intelligenza, del suo gusto per la provocazione; ma anche della sagacia con cui Taylor ha lasciato filtrare i propri ricordi per salvarne gli elementi più singolari. In Roth si alternavano, con una veemenza evidentemente incontenibile, indignazione e desiderio, disgusto e voluttà, rabbia e commozione: «Ho scritto proprio perché queste emozioni non mi ammazzassero», disse un giorno a Taylor, e forse la sua decisione di smettere potrebbe essere stata motivata, tra l’altro, dalla estinzione della rendita che avevano fornito alla sua sete di vendetta coloro che, più o meno gravemente, lo avevano attaccato.

L’elenco conta numerose comparse, ma le presenze più memorabili sono quelle della prima moglie Maggie, i cui raggiri per protestarsi incinta e farsi sposare sono immortalati in La mia vita di uomo, e della seconda, Claire Bloom, trasformata nell’avvizzita stella del cinema muto Eva Frame, protagonista di Ho sposato un comunista; e, ancora, l’improvvido recensore del Lamento di Portnoy, Irving Howe, venne ripagato della sua stroncatura, a un decennio di distanza, quando si ritrovò nei panni del professor Milton Appel in Lezione di anatomia, dove subisce il rancore di Nathan Zuckerman, i cui racconti ha definito «spazzatura tendenziosa, il sottoprodotto di un’ostilità dilagante e confusa».

È evidente, dalle pagine di Taylor, lo spirito tirannico di uno scrittore votato al culto del vilipendio, all’insulto verso la buona creanza, a scatti di ribellione verso le associazioni mentali più consolidate, ciò che probabilmente doveva derivargli da una granitica centratura nelle proprie ragioni, che a sua volta gli derivava dalla sua infanzia felice e iperprotetta: «Ero circondato da una cospirazione femminile dedita alla mia custodia», questa la chiave che apre i misteri del carattere. Incamerato un tanto inestimabile patrimonio psichico, Roth poté prendersi la libertà di scandalizzare con le sue invettive antiebraiche proprio coloro che gli stavano più a cuore, indirizzando al padre distillati letterari in forma di immaginarie missive in cui rendeva ridicolo tutto ciò che quell’uomo modestissimo gli aveva insegnato; e eleggendo a paradigma della più meschina ristrettezza di vedute quella Weequahic che aveva disegnato il perimetro del suo agio mentale, presupposto per la sfrenata libertà dei suoi pensieri, parole, opere, omissioni.

A caccia di minuzie
Di vent’anni più giovane, gay, scrittore egli stesso, Benjamin Taylor dovette subire il fascino di Roth fino a rendergliene pressoché insopportabile il definitivo congedo: a lui lo scrittore americano dedicò Il fantasma esce di scena, dove Nathan Zuckerman fa la sua ultima apparizione; e nelle mani di Taylor – che le ha donate al Dipartimento manoscritti della Fireston Library di Princeton – sono confluite un migliaio di pagine che Roth mise insieme all’indomani del suo pensionamento dalla scrittura romanzesca: in esse è depositato il saldo dei conti con i suoi «nemici», la confutazione delle accuse che avevano reso amaro il sangue di quest’uomo, peraltro ossessionato dall’indignazione per ogni forma di rettitudine, da insaziabili desideri erotici, e da ciò che ne ha reso impareggiabile la scrittura: la caccia alle «minuzie proliferanti della vita».