La descrizione più puntuale è arrivata da un giornalista britannico, che ha definito il suo Esperimento americano (66thand2nd, pp. 378, euro 18) come «una stagione di The Wire sceneggiata da Coetzee». Perché il nuovo romanzo di Benjamin Markovits, 44enne autore statunitense cresciuto tra il Texas e l’Europa, con all’attivo un racconto sul basket, la sua passione giovanile, e una trilogia su Lord Byron, conduce il lettore lungo le strade della crisi degli Stati Uniti, dense di risentimento, sconfitte personali e violenza potenziale, come descritto nella celebre serie, ma creando pagina dopo pagina, grazie alla guida di Marny, il narratore goffo e contraddittorio della storia, un’atmosfera per certi versi di sogno, popolata di personaggi enigmatici come è abitudine per il sudafricano premio Nobel per la letteratura. Attraverso la contraddittoria epopea di un gruppo di ex studenti di Yale, impegnati in un progetto di riqualificazione di un’area di Detroit, cui si accompagna una vasta operazione di gentrificazione dalle conseguenze drammatiche, Markovits indaga così in un libro di rara forza e lucidità, gli umori più profondi e l’identità stessa del paese.

Già prima di arrivare a Detroit, il protagonista descrive il crollo che scorre davanti ai finestrini della sua auto. Le carcasse dei centri industriali della Rust Belt, come la frustrazione dei rampolli del ceto medio che vedono sfumare le loro aspettative. Questo è il romanzo della crisi americana?
Per certi versi, sì. Marny è come se passasse in rassegna la situazione drammatica che attraversa l’America per poi riflettere in particolare sulla condizione dei giovani laureati, talvolta usciti da prestigiose università, nel suo caso Yale, che si trovano a svolgere funzioni molto meno retribuite, o significative, di quanto avessero immaginato e si rendono conto che il loro futuro non sarà migliore di quello toccato in sorte ai loro padri, come è accaduto fino ad oggi. Volevo evidenziare come la situazione economica dell’ultimo decennio abbia finito per mettere almeno in parte in discussione anche alcuni tradizionali privilegi sociali e, per questa via, solo quando sono stati toccati in prima persona, alcuni si siano resi conto finalmente di quanto era nel frattempo già accaduto al resto della popolazione. Sono partito da lì perché quella è un po’ casa mia, visto che anch’io ho studiato a Yale…

Torna a più riprese il parallelo tra i coloni europei che sbarcarono in America fin dal 1600 e quanti decidono di insediarsi a Detroit per «riqualificare» la città. C’è una «promise land» anche nel loro destino?
Per spiegare questo riferimento, si deve sapere come tutto ha avuto inizio. Mentre già vivevo da alcuni anni a Londra ho letto diversi articoli che raccontavano come a Detroit si potessero comprare delle case con soli 300 dollari. La cosa era rischiosa perché la città era in declino e la gente stava abbandonando alcune zone. Però l’idea che ci si potesse trasferire lì e cominciare una nuova vita era molto allettante. Conteneva l’annuncio di un nuovo inizio, con tutto quello che una simile prospettiva porta sempre con sé.
Alla fine nel mio caso non se ne è fatto niente, ma in compenso mi sono ritrovato tra le mani una storia straordinaria per un romanzo. Così ho cominciato a immaginare che a lanciarsi in quest’avventura fossero soprattutto dei giovani bianchi della middle-class, delusi e frustrati a causa della crisi, e magari manovrati da qualche grosso gruppo finanziario, che si accingevano ad acquistare le case perse dalle famiglie afroamericane e a cacciare i neri dai loro quartieri attraverso una gigantesca opera di gentrificazione che trasforma le aree depresse in zone alla moda. Il paragone con i pellegrini che sbarcarono in America e cacciarono le popolazioni locali dai territori in cui vivevano, con la scusa di essere guidati dalle migliori intenzioni e con la convinzione di aver trovato la «terra promessa», si è così imposto quasi naturalmente.

Eppure, il confine tra utopia e speculazione è una delle chiavi con cui ci si può avvicinare a questa storia…
Una delle domande che mi sono posto mentre scrivevo il romanzo è stata: «Marny rappresenta il problema o la soluzione per Detroit?». Sulla carta i progetti per ridare vita a quella che è diventata una città morta sembrano andare nella direzione della speranza. Qualcosa che forse si può chiamare «utopia». Solo che il modo in cui tutto ciò avviene conduce ad un esito ben diverso: un’operazione speculativa e il tentativo di cambiare il volto di intere aree di Detroit.
Lo scontro che vede opporsi Nolan e Tony, due personaggi che rappresentano rispettivamente i vecchi residenti neri, spesso appartenenti ai ceti popolari, e i nuovi arrivati che sono per lo più bianchi di classe media, offre una prima risposta su come le cose stiano andando davvero. In tale situazione, Marny cerca di mettere in comunicazione i due gruppi, di far parlare tra loro le persone perché si possano superare ostacoli e reciproci sospetti, ma non è detto che i suoi sforzi siano destinati a essere coronati da successo. E questo anche perché l’approccio di certi liberal, come lui, quell’atteggiamento di condiscendenza verso chi sta peggio, ma senza alcuna reale empatia o condivisione, può finire per essere solo un altro volto di una aperta ostilità. L’annuncio di un futuro diverso prende così le sembianze di uno scontro di classe e tra culture. E anche lui sarà costretto a riflettere sul fatto che per l’utopia non c’è più grande spazio a Detroit come nel resto del paese.

Così, invece di una via d’uscita dalla crisi, emerge il conflitto razziale; tema cui aveva accennato anche nel suo romanzo sul basket, «Un gioco da grandi» (66thand2nd, 2012). Una consapevolezza che è frutto anche di esperienze personali fatte in Texas?
Almeno in parte, sì. Da ragazzino, ad Austin, frequentavo una scuola che si trovava in un quartiere afroamericano, ma nella composizione delle classi vigeva ancora una sorta di segregazione, malgrado si fosse già negli anni Ottanta. Perciò, l’unico vero contatto che avevo con i ragazzi neri o ispanici avveniva sui campi da basket, nella squadra del liceo. E, in realtà, in base alla mia esperienza, non solo alle scuole elementari o alle superiori, ma anche a Yale, i gruppi di studenti bianchi e neri erano, se non segregati, in qualche modo separati nei fatti, divisi attraverso confini invisibili ma evidentemente piuttosto consistenti visto che in pochi sembravano essere in grado di varcarli.
Certo, c’erano dei razzisti veri e propri, ma i più, tra noi, sembravano solo avere un rapporto «strano» con quel tipo di questioni, come se non ci sentissimo del tutto a nostro agio nell’affrontarle. Una sensazione che ho trasferito nel libro e che rende alcuni personaggi incerti e dalle reazioni spiazzanti: un modo per trasmettere a chi legge l’idea di fondo che negli Stati Uniti su questa materia i problemi siano tutt’altro che risolti.

Anche la politica mainstream fa irruzione nel romanzo. Come quando Marny racconta di aver sostenuto la campagna dei democratici in una zona popolare del New Hampshire non riuscendo a farsi capire dai suoi interlocutori. Una metafora del successo di Trump tra la working class?
Soprattutto, una cosa vera. Nel 2008 ho avuto un’esperienza simile a quella del mio personaggio mentre vivevo a Boston, durante la campagna per la prima elezione di Obama. Con altri studenti di Yale ci siamo recati in una piccola città chiamata Claremont dove abbiamo fatto il porta a porta, cercando di persuadere i bianchi della classe operaia e della classe media a votare per il candidato democratico. Solo che eravamo un gruppo di giovani privilegiati arrivati da fuori e nessuno ci ha dato retta, ci guardavano come fossimo dei folli che dicevano cose assurde e per loro senza senso. Allora andò bene comunque, lo scorso anno invece è andata come tutti sanno.