«La vera chiave per interpretare Kafka è nelle mani di Chaplin. Come Chaplin crea situazioni nelle quali il reietto e il diseredato, la sofferenza umana eterna, si incontrano in modo eccezionale con le circostanze più straordinarie del nostro esistere odierno, così anche in Kafka ogni circostanza è bifronte come Giano, del tutto immemorabile, senza storia, eppure della più recente attualità giornalistica». Questo accostamento fulminante di Walter Benjamin compare in una delle numerose annotazioni raccolte nel volume che conclude la pubblicazione, da Einaudi, delle Opere complete: VIII. Frammenti e Paralipomena (a cura di Hermann Schweppenhäuser, Hellmut Riediger ed Enrico Ganni, pp. XVI-520, euro 90,00). Entrare in questo volume è come ritrovarsi in un labirinto in cui tuttavia non prevale la geometria dei percorsi infiniti, ma la meraviglia degli accostamenti imprevedibili.
Pur nell’estrema varietà degli argomenti trattati, c’è un aspetto ricorrente, che costituisce uno dei fili intorno al quale si annoda la scrittura erratica e apparentemente dispersa in mille direzioni di Benjamin: sono gli accostamenti tra le presenze del contemporaneo (materiali e immaginarie) e le linee speculative di un pensiero che si sente a casa nell’atemporale pur confrontandosi di continuo con il tempo. Un cortocircuito sempre attivo tra tensione metafisica e curiositas per i frammenti della Storia.
Se l’attitudine allo sguardo micrologico e alla scomposizione della scrittura è il tratto distintivo, soprattutto dell’ultimo Benjamin – si pensi a Strada a senso unico, al Passagenwerk e al lavoro su Baudelaire – nel regesto di lacerti critici che costituisce questo volume delle Opere essa raggiunge il suo culmine. I curatori che ne hanno scelto e ordinato i materiali li hanno suddivisi in due grandi sezioni:‘Frammenti’ e ‘Paralipomena’. Nell’insieme si tratta di appunti, brevi aforismi, annotazioni, schemi, ma anche saggi più corposi rimasti inediti o superati dalle opere compiute pubblicate successivamente. In particolare i ‘Frammenti’ sono testi «relativamente autonomi non riferibili ad alcuna delle opere concluse», come si legge nella Nota introduttiva al volume, e sono suddivisi dai curatori in otto ambiti tematici. I ‘Paralipomena’ «sono materiali privi di valore autonomo e preparatori ai testi conclusi». Là dove era possibile i curatori hanno cercato di stabilire una datazione, seguendo il criterio cronologico a cui si ispira l’edizione italiana delle Opere. Edizione che fu avviata, lo ricordiamo, nel 1982 da Giorgio Agamben e che ebbe il merito di portare in primo piano gli aspetti genetici dell’opera benjaminiana, assai più illuminanti delle partizioni tematiche seguite prevalentemente nell’edizione originale tedesca. Nel caso di Benjamin, più che per altri, il desiderio di sistemazione dei posteri non rende giustizia all’obbiettiva complessità della tessitura testuale.
Il criterio cronologico ha consentito quindi di seguire le trasformazioni del suo pensiero e di individuarne le direttrici fondamentali nell’ottica delle influenze, degli incontri intellettuali, delle amicizie e della geografia dei suoi spostamenti europei. Non si è trattato di una semplice scelta filologica, ammesso che le scelte della filologia possano dirsi ‘semplici’, ossia indifferenti alla costruzione dei significati. Si è trattato di aderire a uno stile di lavoro dell’autore, di seguirne il percorso e la progressione, di ricercare le coerenze sistematiche non nell’organizzazione esteriore degli argomenti ma nelle connessioni profonde del suo pensiero.
Dopo l’uscita dei primi cinque volumi – l’ultimo dei quali apparve nel 1993 –, l’edizione Agamben si interruppe per incomprensioni con l’editore. Fu proseguita anni dopo dai curatori dell’edizione tedesca affiancati da Enrico Ganni, mantenendo il criterio cronologico voluto da Agamben.
L’appunto citato poc’anzi in cui il cinema di Chaplin fornisce, secondo Benjamin, la chiave per penetrare nell’universo di Kafka, è un esempio di come l’immagine si fissi in figura di pensiero, in Denkbild. Se la storia viene spogliata di ciò che sembra essere la sua caratteristica fondamentale, il movimento e la trasformazione, essa consegna all’osservatore una serie di istantanee in cui il passato e il presente, la mobilità perenne del tempo si ferma in una paradossale fissità: è quella che in un passo del Passagenwerk Benjamin ha chiamato «dialettica dell’immobilità»: «Ogni presente è determinato da quelle immagini che gli sono sincrone: ogni ora è l’ora di una determinata conoscibilità. In quest’ora, la verità è carica di tempo fino a frantumarsi… Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è la dialettica nell’immobilità».
Questa idea per cui l’immagine sovverte gli schemi consueti della temporalità si manifesta nei frammenti dedicati alla critica letteraria, probabilmente fra le pagine più rivelatrici del metodo di Benjamin. Qui è in discussione la figura del critico, la sua relazione con il testo, la storicità del suo sguardo e di quello dell’opera a cui si rivolge. Gli schemi della storiografia sociologica e in particolare di quella marxista si scontrano con l’esigenza di autonomia dell’opera stessa. Che non è distanza dal mondo o essenza ineffabile, ma la necessità intrinseca di negarsi a un giudizio che ha di mira il solo contenuto oggettivo dell’opera, vale a dire «solo quanto vi viene espresso». Il vero critico è colui che sa «guardare dentro l’opera», che ne osserva la stratigrafia e sa cogliere sotto la superfice mobile degli oggetti e degli eventi rappresentati ciò che si sottrae al tempo e alla contingenza, ossia il contenuto di verità.
In un lungo frammento dedicato alla «Falsa critica», risalente al 1930-’31, Benjamin stigmatizza la miopia di chi non vede i rapporti che si celano nella costruzione testuale. Lo sguardo rivolto verso ciò che nell’opera è celato, ossia verso il suo nucleo di verità, rende necessaria un’«estetica deduttiva», ossia una definizione trascendente in cui si fissa un significato dell’esperienza artistica che è insieme originario ed escatologico.
Ma proprio in quanto veicolo di un contenuto di verità l’opera perde paradossalmente il suo connotato estetico; l’arte come artificio funzionale alla mediazione di un contenuto scompare, per fare posto a una relazione diretta tra il singolo fenomeno artistico e un’idea in senso platonico. «L’arte – scrive Benjamin in un altro frammento dello stesso periodo – è solo un momento di passaggio delle grandi opere. Sono divenute qualcos’altro (nella fase del loro divenire) e diventeranno qualcos’altro (nella fase della critica)». Critica, opera e divenire sono categorie protoromantiche: il Benjamin di questi anni, che progettava un saggio sulla critica letteraria, attinge al lessico di Friedrich Schlegel e alla sua idea di una critica infinita e immanente all’opera. Non dunque la critica nel senso abituale di giudizio estetico, ma come ciò che rende cosciente l’opera a se stessa e ne potenzia il significato. La definizione che ne dà è «critica magica».
Altrettanto centrale è l’idea di sopravvivenza dell’opera. Benjamin inizia a formularla negli appunti degli stessi anni, che troveranno un momento di aggregazione più stabile nel saggio su «Storia della letteratura e scienza della letteratura» del 1931. «La teoria della sopravvivenza delle opere è mossa dal pensiero dominante che questa sopravvivenza smascheri come pura illusione l’idea dell’“arte” intesa come disciplina a se stante». L’arte non è uno spazio di costruzione estetica autonomo rispetto alla storia, ma il luogo in cui «le macerie generate dal tempo» offrono al critico i materiali su cui esercitare la sua opera di smontaggio e ricomposizione.
Hannah Arendt chiamò Benjamin «pescatore di perle»; ebbene fra le molte perle di questo volume spicca la riflessione sul kitsch e sulla sua relazione con l’arte popolare, consegnata a un lungo frammento risalente verosimilmente al 1929. «Arte popolare e kitsch devono essere considerati una volta per tutte come un unico grande movimento che fa passare di mano in mano determinati contenuti come se fossero staffette alle spalle di ciò che viene chiamata la grande arte». In questi territori della sensibilità e dell’immaginario collettivi, che la concezione dell’arte esclude ancora oggi dal suo ambito, si realizzano evocazioni e appartenenze ancestrali. «Tutta l’arte popolare attira e chiama a sé l’uomo: gli si rivolge in modo tale da costringerlo a rispondere».
Arte popolare e kitsch agiscono sugli strati profondi e inconsci del nostro io, là dove emerge il primitivo, la fantasia che riveste il reale di un’aura onirica. L’effetto di tali forme artistiche minori è una scissione tra la nostra parte razionale, che si fonda sull’oggettivazione del mondo e sulla relazione soggetto- oggetto, e il senso di originaria appartenenza a un tutto in cui un’altra parte di noi tende a rifluire. «Ciò che si è vissuto in modo inconsapevole ha un suono particolare con il quale ci addentriamo nel mondo dei primitivi, nei loro arredi, nei loro ornamenti, nei loro canti, nelle loro immagini. Un suono particolare – ovvero un suono che ci tocca in modo completamente diverso rispetto alla grande arte». In questo territorio di confine tra il sonno e la veglia, in cui la fantasia non si interroga su se stessa ma si abbandona all’attrazione dell’originario, a dominare è uno stato di reminiscenza, che non è l’anamnesi platonica ma piuttosto un sentimento di déjà vu, che «si trasforma così in una forza dal potere magico al cui servizio si pone l’arte popolare (e il kitsch nondimeno)». Le reminiscenze fuori controllo che ci vengono incontro da un remoto passato, Benjamin le chiama «maschere del destino».
Questo percorso argomentativo, che conserva intatta la sua presa analitica anche se applicato alle molte espressioni della cultura pop dei nostri anni, si conclude con un implicito riferimento all’idea stessa della critica: mentre «l’arte ci insegna a vedere dentro alle cose, l’arte popolare e il kitsch ci permettono di vedere a partire da dentro alle cose». Come aveva dimostrato nella sua evidenza icastica la mostra Walter Benjamin Archives allestita nel 2011 al Musée d’art et d’histoire du Judaïsme di Parigi, la misura più consona al saggismo benjaminiano è la forma minima, l’elenco, la citazione, l’appunto, la stessa materialità della grafia minuscola, quasi una sfida alla decrittazione, il montaggio dell’eterogeneo, la ricerca delle sinestesie concettuali. Il volume VIII delle Opere offre al lettore una visione ravvicinata e particolarmente significativa del laboratorio filosofico del pensatore berlinese, se ne vedono gli attrezzi, si capisce da dove provengano i materiali, le mappe e le carte da cui hanno preso inizio i diversi progetti di costruzione. Una specie di immenso cantiere in cui è facile immaginarlo mentre si aggira come il mago descritto da Adorno con cappello a punta e bacchetta magica.