Al di sopra del cielo, a un’altezza che nemmeno i poeti sono in grado di raggiungere, dimora secondo Platone la scienza. Talvolta, qualche anima eletta riesce ad elevarsi, affacciandosi per qualche istante in quella «regione super-celeste»; ma il peso del corpo torna subito a tirarla verso il basso, nel dolore che abita il pianeta.

L’idea che la scienza non sia un costrutto dell’intelligenza (ma appartenga a un dominio purissimo, lontano dalle umane faccende) accompagna buona parte della cultura dei sapiens. All’aurora dell’era moderna, Dante attribuiva ancora il sapere scientifico a divine competenze: nella sua cosmogonia, la matematica abitava nel cielo del Sole, la geometria in quello di Giove, la fisica in quello delle stelle. Tutte le arti e i saperi di questo genere si elevavano per Dante dalla materialità contaminata della Terra: «per cielo intendo la scienza e per cieli le scienze».

Educati a un atteggiamento riverente nei confronti della scienza, non sorprende che desti in noi meraviglia, e poi intrighi e catturi, il racconto di alcune grandi scoperte costruito secondo una prospettiva diversa, ovvero insistendo sui corpi, sui disturbi mentali, sulle malattie, sulle debolezze di scienziati grandissimi, sulle ecatombi e sulle stragi che alcuni dei loro contributi hanno provocato, o reso possibili. È in questa chiave che procede Benjamín Labatut, nel suo appena uscito Quando abbiamo smesso di capire il mondo (Adelphi, pp. 180, € 18,00), secondo l’autore «un’opera di finzione basata su fatti reali». Informatissimo sulle questioni scientifiche, è talvolta davvero difficile comprendere quale peso effettivo abbia la parte più finzionale, sempre intrecciata ad avvenimenti e personaggi ben noti, documentati, controllabili.

Figure chiave
La storia del cammino glorioso, che ha portato negli anni Venti del secolo scorso a mettere ordine nel mondo quantistico è intrecciata per esempio con particolari del tutto estranei (a prima vista) al merito della questione; connessi semmai all’asma di Heisenberg, alla tubercolosi (e alla compulsione sessuale) di Schrödinger, o alla stravaganza, alla zoofobia e alle occasionali inclinazioni coprofile del principe Louis de Broglie, appassionato collezionista di quadri prodotti da folli.

Proprio nel folgorante inizio del libro, dedicato alla fine di Hermann Göring, Labatut mette in luce una connessione diretta tra l’invenzione del blu di Prussia (che rimpiazzò l’indaco, nella pittura e nell’arredamento, all’inizio del ‘700) e quella del cianuro, il veleno elettivo degli alti ufficiali tedeschi (utilizzato per suicidi di massa, alla caduta del nazismo); è lo stesso veleno che – presumibilmente – uccise Napoleone a Sant’Elena e forse Alan Turing, nel secondo dopoguerra. La figura più ancipite, in questo contesto tossicologico, è quella di Fritz Haber, che vinse il Nobel per la chimica grazie all’estrazione dell’azoto dall’aria e alla produzione industriale di fertilizzanti, alla base dell’esplosione demografica del XX secolo, ma fu anche condannato in quanto criminale di guerra, inventore dell’iprite e responsabile diretto di stragi di massa, nel corso della Prima Guerra Mondiale.

Più emblematica ancora dello strano rapporto che può passare tra la genialità della mente e la fragilità della carne è la figura di Karl Schwarzschild, astronomo, fisico, matematico e ufficiale dell’esercito tedesco: il primo ad essere riuscito – nelle trincee del 1915, sul fronte russo – a trovare una soluzione esatta delle equazioni di Einstein, in relatività generale. Era tuttavia una soluzione che conteneva al suo interno un problema più grande – se mai possibile – delle stesse equazioni di partenza: la cosiddetta «singolarità di Schwarzschild», qualcosa che oggi associamo alla fisica dei «buchi neri», ma che – per il suo artefice – rappresentava un vero e proprio incubo.

In quella specifica «singolarità», le coordinate che Schwartzschild aveva utilizzato per risolvere le equazioni di Einstein sembravano infatti perdere senso. Piuttosto che soffermarsi su questo nodo teorico particolare, Labatut ne offre una sorta di rappresentazione somatica, descrivendo la malattia autoimmune che affliggeva il corpo di Schwartzschild, provocandogli lesioni nelle gengive, nell’esofago, poi in tutto il corpo, fino a causarne la morte.

Tracce di una rappresentazione anatomopatologica delle difficoltà della mente, o della precarietà del corpo, ricorrono in verità molte volte, nella letteratura dell’Occidente. Vengono in mente le vicissitudini di Ferdinand Bardamu, nelle trincee della Grande Guerra, nell’Africa coloniale, o nei bagni pubblici di New York, descritte da Céline in Voyage au bout de la nuit. In tutt’altro contesto, deformazioni e malanni ricorrono nella letteratura «gotica» dell’Ottocento, nella fisicità essenziale dei personaggi grotteschi immaginati per esempio da Mary Shelley, Edgar Allan Poe, Robert Louis Stevenson e Victor Hugo. E ancora, per tornare al mondo reale: le sofferenze e lo stoicismo di Schwartzschild, così come Labatut le racconta, fanno venire in mente i diari di Michel de Montaigne a proposito del dolorosissimo «mal di pietra» che lo faceva «mugghiare», gli impediva il riposo o lo portava a gioire di soddisfazione, quando riusciva ad espellere calcoli.

La scienza ritrova la sua matrice
Il libro di Labatut – a tratti – ha anche un’efficacia di tipo visivo: evoca una presenza della carne che fa venire in mente la pittura di Lucian Freud; oppure quella – più brutale e sofferta – di Francis Bacon. E richiama anche modi del genere pulp, per il carattere macabro di molti contesti, per la programmatica interazione tra il fantasioso e la scienza, per l’inclinazione a trattare giganti del pensiero scientifico come fossero personaggi di comics. Anche in questo, peraltro, sta la piacevolezza del volume.

Di più, il lavoro esegetico di Labatut può iscriversi in una tendenza più dotta, che ha come oggetto la scienza incarnata, «situata», mai pura, debitrice degli stili di vita, degli umori, dei caratteri, delle abitudini, dei costumi e perfino delle diete delle donne e degli uomini che hanno fatto concretamente la scienza. Una tendenza storiografica, che si è andata progressivamente affermando, e che – per dirla sommariamente – punta anche a moderare, depotenziare o sdrammatizzare quel tono apologetico e riverente così diffuso nella storia e nell’autoriflessione della scienza.

E tuttavia, questo ritorno alla carne, alla vita, alla Terra nasconde un paradosso, che già nel titolo del suo libro Labatut segnala efficacemente: quando la scienza ritrova la sua matrice, e si riconosce come il prodotto terreno di esseri materiali (che vivono secondo i loro costumi, nel loro ambiente, a una scala limitatissima delle dimensioni del cosmo), allora il mondo e la sua descrizione – a una certa scomposizione del dettaglio – diventano incomprensibili, perché ridotti a mere astrazioni simboliche, che poco o nulla hanno a che fare con la vita corrente.

Quel raffinato sistema materiale, che costituisce e rende possibile il corpo e la mente degli esseri umani, stenta a comprendere a un certo punto i suoi stessi costrutti, perché costretto a esprimerli come qualcosa di completamente diverso dalla materia ordinaria, dalla quale pensava di essersi sviluppato.