«Le idee si rapportano alle cose come le costellazioni si rapportano alle stelle», scrive Walter Benjamin nella Premessa gnoseologica del suo saggio sul dramma barocco tedesco. Nella congerie di punti luminosi che splendono nella volta celeste le costellazioni fungono da strumento di orientamento, così i fenomeni raggiungono nelle idee il loro virtuale ordinamento, la loro interpretazione, la loro verità. E ancora, nei «Passages» di Parigi: la critica deve essere un esercizio di rammemorazione, dove «quel che è stato si unisce fulmineamalmente con l’adesso in una costellazione». Si ispira a questa intensa, cruciale immagine un prezioso volume in cui vengono presentati i tratti fondamentali della filosofia benjaminiana, Costellazioni Le parole di Walter Benjamin (Einaudi «Piccola Biblioteca. Ns», pp. X – 224, € 21,00), a cura di Andrea Pinotti, che è uno dei più acuti studiosi di teorie e pratiche della cultura visuale nel Moderno. Il libro è articolato in quarantatre voci, ordinate alfabeticamente, collegate tra loro con rimandi incrociati – sono scritte, insieme a Pinotti, da valenti specialisti come Maurizio Guerri, Giovanni Gurisatti, Stefano Marchesoni e Antonio Somaini – e si propone di offrire uno strumento per orientarsi nel territorio, ricchissimo ma anche impervio, del pensiero benjaminiano, che intreccia impavidamente critica letteraria e teologia, estetica e filosofia della storia.
Il lettore può muoversi liberamente entro grappoli di concetti. Il compito della Critica – la voce si collega ad altre come Allegoria, Citazione, Lingua, Traduzione – è quello di cogliere «il contenuto di verità» di un’opera d’arte, che si cela dentro «il contenuto reale», che è l’apparenza empirica-sensibile: «Se si vuol concepire, con una metafora, l’opera in sviluppo nella storia come un rogo, il commentatore gli sta davanti come il chimico, il critico come l’alchimista. Se per il primo legno e cenere sono i soli oggetti della sua analisi, per l’altro solo la fiamma custodisce un segreto: quello della vita». Il critico procede costruendo come un mosaico di «immagini di pensiero» (Denkbilder), che rompe il continuum storico per arrivare alla verità: «Non si tratta di presentare le opere della letteratura nel contesto del loro tempo, ma di presentare, nel tempo in cui sorsero, il tempo che le conosce, cioè il nostro».
La città della tecnica e delle merci
Un grappolo fondamentale di concetti ruota attorno a Parigi, la città della tecnica, del lusso, della merce, e a Baudelaire: Città, Fantasmagoria – che riprende la teoria marxiana del feticismo della merce –, «Flâneur», Aura, Choc, Tecnica – «La macchina da presa riesce ad adattarsi alle nuove condizioni della visione meglio di quanto non vi riesca l’occhio umano» – Riproducibilità, «Passage», Melanconia. Parola celeberrima del pensiero benjaminiano, la nozione di «aura» segna il tramonto, per le opere d’arte, di unicità, autenticità, originalità. «Ciò che viene meno nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte è la sua aura». Abbiamo allora, abbandonata ogni nostalgia per l’«aura», un’anti-arte che introietta lo «choc» allegorico come arma, anche politica, con cui attivare una «forza messianica» capace di redimere il passato. A questa grande costellazione, che passa anche attraverso l’attenzione alle «nuove arti», la fotografia e il cinema, si ricollega la riflessione sull’esperienza e sulla percezione: sono le voci Esperienza, Storicità della percezione – nel contesto della ripresa dei concetti tattile/ottico formulati da Alois Riegl e da Heinrich Wölfflin – Montaggio, Innervazione e training, Inconscio ottico, Memoria e ricordo, Mito, Materialismo antropologico, Sogno e risveglio – dove il «risveglio» si oppone alle immagini arcaiche di Klages e agli archetipi di Jung – Immagine dialettica, Narrazione, Gesto. Nel suo progetto di una filosofia dell’esperienza Benjamin rigetta il culto dell’«esperienza vissuta» (Erlebnis), che accumunava la «filosofia della vita» con la fenomenologia e con il misticismo, e privilegia Erfahrung, che è la «vera» esperienza. Mentre il «vissuto» – che è l’ossessione biografica di Dilthey, di Gundolf – è legato agli eventi e ci inchioda al presente, l’Erfahrung presuppone un’accumulazione di dati in larga misura inconsapevole e si rivela solo a posteriori, nel ricordo involontario – la Recherche di Proust … – e nella narrazione.
Straordinarie sono, in questo contesto, le riflessioni sulla «narrazione» e sul «gesto». Il tema della narrazione è affrontato in particolare nel saggio Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicolaj Leskov (1936): la narrazione – di cui la «favola» (Märchen) costituisce l’archetipo – è legata alla capacità del singolo di fare e scambiare esperienze (Erfahrungen), alla memoria, all’oralità, alla saggezza, al dare e ricevere consigli. «La narrazione, come fiorisce nell’ambito del mestiere – contadino, marittimo e poi cittadino – è anch’essa una forma in qualche modo artigianale di comunicazione. Essa non mira a trasmettere il puro «in sé» dell’accaduto, come un’informazione o un rapporto; ma cala il fatto nella vita del relatore, e ritorna ad attingerlo da essa. Così il racconto reca il segno del narratore come una tazza quello del vasaio».
La gestualità di Chaplin
La voce Gesto mette bene in luce la sua centralità nel pensiero benjaminiano. Il teatro epico di Brecht è «gestuale», perché la funzione del gesto, «lungi dall’illustrare o addirittura promuovere l’azione, consiste invece nell’interromperla» e nel rivelarne il carattere alienato. Il gesto frammentato di Chaplin è legato all’inconscio ottico: «La novità della gestualità chapliniana è che essa scompone i movimenti dell’espressività umana in una serie di piccolissime innervazioni. Ognuno di questi singoli movimenti è costituito da una sequenza di particelle separate di moto». I romanzi di Kafka possono essere letti come protocolli di un esperimento inaudito che fa del gesto non qualcosa di significante, ma qualcosa che non si comprende, «un punto oscuro e nebuloso». «Tutta l’opera di Kafka – scrive Benjamin – rappresenta un codice di gesti che non hanno già a priori un chiaro significato simbolico per l’autore, ma sono piuttosto interrrogati al riguardo in ordinamenti e combinazioni sempre nuove. Il teatro è la sede naturale di questi esperimenti. Si possono leggere per un buon tratto le storie animali di Kafka senza avvertire che non si tratta di uomini. Quando s’imbatte nel nome della creatura – la scimmia, il cane o la talpa – il lettore alza gli occhi spaventato e si accorge di essere già lontanissimo dal continente dell’uomo. Ma Kafka è sempre così: egli toglie al gesto dell’uomo i sostegni tradizionali e ha così in esso un oggetto a riflessioni senza fine».
La costellazione di voci di questo volume, un vero caleidoscopio, restituisce il cosmo benjaminiano in tutta la sua complessità, e anche nelle sue tensioni. Se le tesi Sul concetto di storia rivelano un Benjamin fiammeggiante, anarchico, messianicamente distruttivo – sono le voci Storia, «Jetztzeit» (il «tempo-ora» che deve essere afferrato), Nuda vita, Violenza – la voce Collezionismo – e lo stesso Benjamin era un appassionato collezionista – mette in luce «una grande manifestazione profana della vicinanza», uno sguardo amoroso soffuso di una segreta malinconia: il collezionista non esalta nelle cose il valore funzionale, la loro utilità, ma le studia, e le ama, «come le scena, il teatro del loro destino».