«C’è un fossato, e io ci cado dentro cercando di saltarlo; quando riesco finalmente ad arrampicarmi e uscire, gli altri sono spariti». È il 1911, Benjamin intraprende con un gruppo di amici un viaggio che lo porterà dapprima in Svizzera, poi sul Lago Maggiore e infine a Venezia. Cadere nel fossato e rialzarsi per poi scoprire di avere perso i contatti con il mondo. In questa frase scritta nel diario di quel viaggio c’è forse il destino del Walter Benjamin filosofo, ma ancor più dell’uomo a cui non faceva difetto la socialità sebbene spesso si sentisse tradito da quegli amici a cui confidava gli esiti delle sue esplorazioni intellettuali. Di fossati Benjamin ne ha saltati molti e molte sono state le cadute, fino a quella fatale di Port Bou, nella notte del 26 settembre 1940, da cui non si sollevò più.
Eppure quel primo viaggio, un po’ programmato e molto improvvisato come sono i viaggi dei ragazzi sulla soglia tra adolescenza e gioventù, rivela non poco della tormentata e insieme lucidissima personalità di Benjamin. L’insicurezza, la precarietà fisica, la postura fatalmente maldestra che lo caratterizzeranno per tutta la vita si palesano in aperto contrasto con la rapidità fulminea con cui sa cogliere le peculiarità dei mondi che attraversa, i significati delle costruzioni simboliche, i tratti aporetici della Modernità.
L’edizione degli Scritti autobiografici a cura di H. Schweppenhäuser e R. Tiedemann (Neri Pozza Editore, traduzione di Carlo Salzani, pp. 544, e 30,00) consente ora di vedere nella loro progressione cronologica le scritture che il filosofo berlinese ha dedicato a quella che potremmo chiamare una complessa e stratificata cifratura del proprio vissuto, mossa dalla consapevolezza che solo nella mobilità dell’esistenza è possibile cogliere i segni precari e fungibili di un significato che trascende l’accidentalità delle nostre vite.
La sua Italienische Reise, all’inizio del secondo decennio del XX secolo, lascia trasparire nelle osservazioni, nell’attenzione al dettaglio, nell’esplorazione indiziaria, una misteriosa affinità con quella di Goethe: a cui lo lega il gusto di alternare la visione del naturale a quella dell’artificio della Zivilisation, con i guasti, le follie e la disumanizzazione che essa si porta appresso. Anche in Benjamin l’arte, la costruzione sociale e la cultura si confrontano con la dimensione naturale; e la natura, sebbene sottoposta all’inesorabile razionalità strumentale dell’uomo, ancora rivendica tardivamente il suo diritto a esistere per se stessa.
Se il viaggio in Italia del 1911 è il resoconto di un’esplorazione in cui la memoria culturale fa tutt’uno con la Geselligkeit – la socialità di un gruppo di coetanei provenienti dal mondo della borghesia colta berlinese –, nel Diario moscovita del ’26 quella Geselligkeit tardoadolescenziale è ormai una Welt von gestern, un mondo di ieri, un ricordo lontano. La sfida ora è capire che cosa ci riserverà il futuro e soprattutto che ne sarà di quell’immane esperimento politico e sociale che la Russia ha avviato nel 1918 sotto le insegne della rivoluzione comunista.
Nei 15 anni trascorsi dal viaggio in Italia il mondo è completamente cambiato, la fine della prima Guerra Mondiale ha ridisegnato i confini d’Europa e la grande metropoli del XX secolo, la Berlino del nuovo secolo, diventa il luogo in cui si realizza un melting pot di culture, di mondi rurali e tecnologia, di spazi artistici, di ritrovi e di discussioni politiche.
Anche la Mosca che si presenta allo sguardo di Benjamin è un immenso laboratorio sociale dove si sperimentano nuove forme di convivenza di cui egli cerca di leggere gli effetti visibili. Ma Mosca è anche il mondo in cui si concentrano le molte etnie dell’immensa nazione russa, i venditori ambulanti, i negozi di giocattoli, gli orologiai, le pasticcerie che vendono dolci della più svariata provenienza. Questo ininterrotto movimento fatto di colori, merci e di rumori attutiti dalla neve, che rende uniforme il paesaggio urbano e lascia trasparire le facciate affrescate delle chiese, è per Benjamin una sfida antropologica e nello stesso tempo una formidabile occasione per dare sfogo al suo gusto collezionistico. Il dato politico appare secondario, in primo piano ci sono le frequentazioni dei teatri, il nuovo cinema russo, un’offerta di cultura e di discorsi sulla cultura di cui Benjamin coglie, con sguardo da esteta-entomologo, le luci e le ombre.
In primo piano lo strano triangolo amoroso che lo lega all’amata Asia Lacis, che qui appare come una musa recalcitrante piegata dalla sofferenza psichica, degente presso una clinica di Mosca proprio in quei giorni tra fine 1926 e inizio ’27, a cui Benjamin legge ostinatamente brani da Strada a senso unico di imminente pubblicazione in Germania.
E l’altro personaggio sulla scena di questa strana convivenza è Bernhard Reich, regista teatrale e critico, marito di Asia Lacis, che condivide in quei giorni con Benjamin una stanza d’albergo e, poiché conosce il russo, introduce l’ospite berlinese nel mondo della nuova drammaturgia.
Una sera di metà dicembre Benamin incontrerà Joseph Roth nella veste di inviato dalla Frankfurter Zeitung per scrivere una serie di articoli sulla nuova Russia sovietica, intitolata Reise in Rußland. Di lui, a incontro terminato, Benjamin dirà laconicamente: «È arrivato in Russia da bolscevico (quasi) e se ne va da monarchico».
Anche Benjamin è dimidiato ma la curiositas politica cede il passo troppo spesso al collezionista, alla devozione intellettuale per Asia Lacis, all’ermeneutica dell’impressione quotidiana, còlta per caso e inserita nel novero degli oggetti degni di essere rammemorati.
Il tema della memoria appare nel soggiorno moscovita come la traccia proiettata nel futuro in grado di accedere al senso del tempo e di spiegare la mobilità indecifrabile della vita.
Quella stessa mobilità fatta di scomposizioni di frammenti di memoria che troviamo in Infanzia berlinese, che in qualche modo rappresenta la summa del rammemorare benjaminiano. Un riandare al tempo perduto tutt’altro che nostalgico e ancor meno un tentativo di rimozione della morte come in Proust; nella lettura che ne dà acutamente Peter Szondi, è bensì la chiave ermeneutica per leggere nel passato il futuro.
La prima pagina di Cronaca berlinese si apre con un gesto di gratitudine verso coloro che «mi hanno iniziato alla città». L’‘iniziazione’ è il filo di Arianna che permette al bambino impaurito dalla dismisura della metropoli di uscire dal labirinto e che gli consegna le chiavi per leggere il suo tempo presente e nella sua misteriosa segnatura il significato del futuro che lo aspetta.
Infanzia berlinese, la cui ultima versione reca la data del 1938, due anni prima della tragica fine del suo autore, presenta un esordio che equivale a una dichiarazione di impotenza della narrazione. Chi ha letto quel libro sa che è composto di fotogrammi e di brevi lacerti narrativi, non di un’autobiografia intesa come solida costruzione narrativa.
E così scorrono le immagini del Tiergarten («Non sapersi orientare in una città non significa molto. Ma smarrirsi in una città come ci si smarrisce in un bosco richiede tutt’altro apprendimento»), del Kaiserpanorama, della Colonna della vittoria («Quegli eroi, le cui gesta rilucevano fioche nel portico della Colonna, segretamente mi sembravano altrettanto infami delle moltitudini di dannati che espiavano le loro pene frustate da turbini di vento, rinchiuse in tronchi d’albero sanguinanti, gelate in blocchi di ghiaccio»).
Benjamin, che dalle avanguardie e dalla lezione di Hofmannsthal ha accolto il senso della fine dell’ottimismo della parola, salda questa impotenza del dire alla menzogna della narrazione storicista. Così come la parola illude di afferrare la verità del mondo, non diversamente la narrazione del progresso storico dissimula l’orrore di coloro – e sono la maggioranza – che dalla storia sono stati sconfitti. Gli abbandonati, i reietti, i dimenticati, i perdenti.
Scrivere di sé vuol dire allora salvare ciò che è stato sepolto sotto la spessa coltre dell’oblio o sotto quel formidabile narcotico che è la narrazione progressiva della propria vita. La sola salvezza a questa negazione narrativa della verità è l’immagine che improvvisa balena alla memoria e ci restituisce, con la potenza icastica del fotogramma, la verità di un momento della nostra esistenza. Questo modello di rammemorazione, che in Benjamin diviene epistemico, è lo stesso che innerva le Tesi di filosofia della storia, che rappresentano probabilmente la sintesi estrema del suo pensiero, della sua idea di passato e di futuro e la sua ambigua speranza di un eschaton che dia un senso all’orrore del vivere.