L’8 giugno alle 18 ci sarà il primo incontro della Commissione popolare per la legge sui beni comuni, un percorso di discussione pubblica che vede la partecipazione di tante e diverse realtà e «apre una discussione pubblica, condivisa e plurale su tutte le proposte e i disegni di legge già presentati in Parlamento sui beni comuni, per produrre un testo coordinato di legge sui beni comuni. Vogliamo una proposta che rifletta i metodi del commoning e le “pratiche di cura” e cooperazione che negli anni hanno reso possibili la vita e l’esistenza dei beni comuni e del “comune”. L’elaborazione legislativa deve essere autorevole proprio in quanto capace di consentire l’interazione tra saperi tecnici e interdisciplinari, pratici ed esperienziali, relazionali ed ecologici, politici ed emotivi che in questi anni hanno costruito i tasselli del mosaico dei beni comuni».

Tra queste organizzazioni figura la Rete nazionale dei beni comuni emergenti e a uso civico, che da tempo richiama l’attenzione sull’assenza di una proposta capace di riconoscere come beni comuni gli spazi riappropriati e aperti all’uso e alla gestione comunitari.

In Italia c’è una fitta rete di +sui beni comuni, urbani, rurali, periferici: dal Macao di Milano (Nuovo centro per le arti, la cultura e la ricerca), alla Fattoria senza padroni di Mondeggi; dal Bread&Roses di Bari (Spazio di mutuo soccorso) al Giardino liberato di Materdei a Napoli; dalla rete di economie autogestite Fuori Mercato, all’Asilo Filangeri di Napoli (comunità dei lavoratori e lavoratrici dello spettacolo); dall’associazioni veneziane che si occupano dell’isola abbandonata di Poveglia, a Casa Bettola di Reggio Emilia.

Solo per ricordare alcune delle varie esperienze associative e dei gruppi di ricerca che si occupano di promuovere la cultura e la pratica quotidiana della cura dei beni comuni. Spazi conquistati e aperti all’uso comunitario. Gelosi della propria autonomia e informalità, hanno deciso di organizzarsi in una rete – la Rete Nazionale dei Beni Comuni Emergenti e a Uso Civico – per scambiarsi pratiche, strumenti e saperi, nonché per democratizzare il discorso legale sui beni comuni a partire da un uso creativo del diritto, che risponda ai bisogni delle comunità in coerenza con il più ampio quadro normativo esistente.

Così, la Rete ha lavorato per aprire un terreno di confronto pubblico e aperto con le varie proposte di legge presentate da alcuni parlamentari (D’Ippolito, Fassina, Nugnes) di diversa ispirazione, più aderenti alla proposta uscita dalla Commissione Rodotà nel 2007 ovvero più legate alla difesa della demanialità dei beni comuni come proprietà collettiva del popolo.

In questo dialogo, la rete per un anno ha tenuto assemblee pubbliche in tutta Italia per elaborare punti condivisi che chiede di introdurre in qualsiasi ipotesi di legge che riguardi i beni comuni.

In particolare, ha chiesto che qualsiasi definizione o elenco di beni comuni lasci sempre aperta la possibilità di riconoscere tutti quegli spazi urbani e rurali che progressivamente nascono con forme di uso e gestione collettiva finalizzate all’esercizio dei diritti fondamentali, inclusi quelli politici e sociali, della sua più ampia comunità di riferimento.

La rete ha chiesto anche il riconoscimento dell’uso civico e collettivo, già sperimentato a Napoli per consentire l’uso, la gestione e il godimento diretti e non esclusivi dei Beni comuni attraverso apposite Dichiarazioni d’uso civico e collettivo scritte dalla comunità.

L’Amministrazione ha il preciso dovere sociale di favorire, anche economicamente, questi processi, senza lederne l’autonomia. Soprattutto, ha il dovere di renderli immediatamente accessibili, in modo che il processo di definizione delle regole dell’uso civico si formi e progredisca attraverso la prassi di uso e vive pratiche sociali.

Infine, la presenza di forme di uso e gestione collettiva aperta di un bene pubblico dovrebbe escludere la privatizzazione o vendita del bene stesso, in quanto è generativa di “redditività civica”, intesa come benessere sociale non solo monetario, ma soprattutto sociale e culturale. In questo caso, l’Amministrazione dovrebbe essere chiamata a sospendere eventuali precedenti decisioni di alienazione, messa a reddito, dismissione o privatizzazione del bene e aprire una procedura di confronto pubblico aperto alla comunità.

Oggi, la Rete ha trovato nella Commissione popolare per la legge sui beni comuni una convergenza con tante e diverse realtà nazionali e locali, che sono portatrici di visioni e contenuti in parte diversi, ma condividono il metodo di una discussione aperta e orizzontale.

Tutte/i possono partecipare alla prima riunione martedì 8 giugno, scrivendo a all’indirizzo info@commissionepopolarebenicomuni.it. E lanciamo a il manifesto l’idea di ospitare questo dibattito, coinvolgendo esperti/e e soprattutto attivisti che con azioni e intelligenze mettono con i piedi per terra la discussione sulla gestione dei Beni Comuni.

*** Maria Francesca De Tullio Paolo Cacciari, Mario Santi per la rete dei Beni Comuni, per la promozione di una commissione popolare per la legge sui Beni Comuni