Cultura

Bengt Jangfeldt, la Russia di Putin e l’eredità di un’utopia autoritaria

Bengt Jangfeldt, la Russia di Putin e l’eredità di un’utopia autoritariaScene imperiali al Cremlino: Putin accolto dal saluto della Guardia d’onore – Foto Ap

L’intervista Lo studioso svedese, autore di «L’idea russa» (Neri Pozza), rintraccia nella storia culturale del Paese i segni del presente. Attentato a Dugina, conflitto in Ucraina. Viaggio alle radici del nazionalismo russo, da Dostoevskij ad oggi. A giudizio dello studioso, «quella in corso è una guerra ideologica frutto di come il Cremlino ridefinisce l’identità nazionale guardando ad un nuovo Impero»

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 30 agosto 2022

Non sempre un cammino unitario, ma un percorso che è stato comunque scandito da un elemento chiave, un dualismo di fondo definito dal rapporto e dal confronto di Mosca con l’Occidente. Un «noi» e «loro» all’ombra del quale si è potuto rigettare il pluralismo e la democrazia in nome dell’identità e di un rapporto «verticale» tra il potere e i cittadini. E che, sul piano internazionale, ha alimentato le proiezioni imperiali del Paese. Con la passione dello studioso che ha dedicato una vita intera alla scoperta della cultura e della letteratura russe, e con l’urgenza dettata dal drammatico contesto della guerra in Ucraina, Bengt Jangfeldt, docente all’Università di Stoccolma e tra i maggiori esperti internazionali della materia, traccia in L’idea russa (Neri Pozza, pp. 188, euro 18, traduzione di Lidia Salvati) una sorta di «albero di famiglia» dell’ideologia che sta alla base delle scelte assunte dal Cremlino nell’ultimo ventennio. Fino all’invasione dell’Ucraina sei mesi fa.

Nel libro, l’intellettuale svedese descrive la storia russa come caratterizzata da una sorta di ciclicità, dove ondate successive che si susseguono le une alle altre possono far riemergere idee formulate generazioni prima donando loro una nuova attualità e facendone di nuovo il centro del dibattito culturale. E «una di queste idee – spiega Jangfeldt – è che la Russia sia una civiltà a sé, non solo diversa ma anche moralmente superiore rispetto a quella occidentale. Formulata circa due secoli fa, all’epoca dello zar Nicola I, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, e in particolare nell’era di Putin, tale idea ha conosciuto una straordinaria rinascita al punto che sotto le sembianze del “patriottismo” è arrivata a diventare ideologia di Stato». Quella che già Dostoevskij chiamava «l’idea russa» ha perciò attraversato i secoli, definendo l’orizzonte dell’impero zarista prima, anche grazie a molti uomini di cultura dell’epoca, per poi scorrere in forma carsica all’interno del nazionalismo sovietico e tornare d’attualità, per colmare il vuoto ideologico del dopo Urss, grazie all’opera di figure quali quella di Aleksandr Dugin, vicino a Putin e all’apparato di potere militare e affaristico che lo sostiene.

Putin ha utilizzato l’attentato che la scorsa settimana ha ucciso Darya Dugina per rilanciare l’idea di una guerra senza fine all’Ucraina. Le tesi di Dugin, considerato tra gli ispiratori del conflitto, pesano ancora di più a Mosca dopo la tragica morte di sua figlia?
Le idee di Dugin si sono diffuse in Russia perlomeno dalla fine degli anni Novanta e hanno avuto un profondo impatto in vari ambienti, non ultimo tra le élite del Paese. Sono diventate mainstream tra i nazionalisti e gli imperialisti russi. Perciò è difficile dire se abbiano guadagnato più peso dopo il tentativo di assassinio di Dugin, che era l’obiettivo principale dell’attentato, ma quanto accaduto ha senza dubbio incoraggiato i suoi seguaci e li ha rafforzati nella loro convinzione che la Russia sia oggi sotto attacco, dall’interno come dall’esterno.

Lo studioso svedese Bengt Jangfeldt

Il suo libro indica una dicotomia all’interno della storia della Russia: da un lato la tendenza minoritaria che guarda all’Occidente e ai valori democratici, dall’altro l’«idea russa», maggioritaria, che afferma l’esistenza di uno spazio separato, legato alla fede ortodossa e che considera la libertà individuale come un pericoloso «prodotto d’importazione». Dagli Zar a Putin, passando per l’Urss, questa opzione ha dominato la scena?
Assolutamente. Si tratta di un leitmotiv nella storia intellettuale russa. Per alcuni brevi periodi le idee democratiche hanno avuto il sopravvento nel Paese. Ma se si guarda complessivamente alla storia russa, per esempio, da Ivan il Terribile, fino ad oggi, vale a dire lungo quasi cinquecento anni, ci si accorge che i tentativi di creare un sistema realmente democratico sono stati pochi e di breve durata: soltanto otto mesi dopo la rivoluzione di febbraio del 1917 e non più di un decennio dopo la caduta dell’Unione Sovietica.

Alla base dell’«idea russa» c’è la convinzione che la civiltà europea, la democrazia e la società che le hanno prodotte siano in declino e destinate a scomparire. Quanta parte di paura e sospetto verso l’Ovest c’è nell’affermarsi di una simile visione attraverso i secoli?
C’è stata paura e sospetto, e anche l’ombra di un forte complesso di inferiorità nei confronti dell’Occidente. I russi hanno sempre considerato l’Occidente come una civiltà decadente e in declino, e allo stesso tempo hanno sempre adorato visitarne i Paesi, penso a Dostoevskij così come ad autori e filosofi moderni. Ciononostante, visto da Mosca, l’Occidente deve ancora marcire e scomparire…

Due «visioni» principali sembrano emergere in questo quadro: gli slavofili fin dalla metà dell’Ottocento e gli eurasiatisti nei primi decenni del secolo successivo. Teorie e figure intellettuali di quelle stagioni sono ancora alla base di molte delle dottrine evocate dal Cremlino o dai circoli del potere moscovita. Di cosa si tratta e quali i punti in comune tra le due tendenze?
Gli slavofili pensavano alla Russia come a un Paese unico, con una cultura, una lingua, un percorso storico, e via dicendo, del tutto diversi da quelli dei Paesi occidentali. Lo stesso si può dire per gli eurasiatisti russi, che avevano inoltre anche una vocazione imperialista che mirava a cercare un’espansione geografica alla sfera culturale e politica russa. Su questo punto le tesi eurasiatiste avevano diversi punti in comune con il movimento panslavo della seconda metà del XIX secolo che faceva sì parte della corrente slavofila ma le cui idee espansionistiche non erano condivise da tutti i suoi esponenti.

Si è soliti credere che il risveglio delle idee ultraconservatrici sia una conseguenza della caduta dell’Urss, in realtà lei indica come già negli anni ’60, intorno alla rivista «Molodaja gvardija», organo dell’Unione della gioventù comunista, fosse tornato d’attualità il culto della «Russia profonda». Che peso avevano nel Paese e nell’apparato queste tendenze che si potrebbero definire come «nazional-comuniste»?
Hanno avuto un grande impatto, anche se i loro esponenti dovevano stare molto attenti a mostrare apertamente queste caratteristiche «nazional-comuniste» nel contesto dell’Unione Sovietica. Il movimento era legato anche alla diffusione dell’antisemitismo e penetrò abbastanza bene in alcuni ambienti, tra cui l’Istituto di Letteratura Gorkij di Mosca. Ricordo, ad esempio, come uno storico della letteratura, Pjotr Palievskij, durante una conferenza in Danimarca nel 1975 affermò che l’unica colpa di Hitler era stata quella di non aver finito il lavoro (uccidere tutti gli ebrei) e che Mandel’štam e altri scrittori ebrei avevano ovviamente il permesso di esistere, ma «non devono scrivere delle nostre betulle russe».

Prima di legarsi a Putin, Dugin ha stretto rapporti con il leader del Partito comunista della Federazione russa Zjuganov che ne ha abbracciato le tesi neo-imperiali, nazionaliste e i riferimenti alla religione ortodossa. Ciò contribuisce a spiegare l’assenza di un’opposizione di sinistra a Mosca?
Non credo si possa considerare in alcun modo il Partito comunista della Federazione russa come un partito di sinistra. La sua ideologia è, a dir poco, troppo confusa. Del resto, mi chiedo se esiste davvero una «sinistra» oggi in Russia.

Il suo libro sembra suggerire che quella che il Cremlino ha scatenato in Ucraina, oltre che una guerra militare dalle conseguenze tragiche, è forse prima di tutto una «guerra ideologica» le cui origini vanno ricercate nel modo in cui la Russia definisce se stessa e la propria identità nazionale.
Senza alcun dubbio. Questa guerra ha che fare con il modo in cui l’identità nazionale russa è stata ridefinita dal duginismo o dal putinismo, in qualunque modo si voglia chiamare questa «visione» delle cose che, come detto, attinge ad un ampio repertorio tratto dal passato. Per Vladimir Putin si tratta di una lotta dal valore esistenziale. Come racconto nel libro, nel 2013 ha dichiarato che intende «passare alla Storia». Ebbene credo proprio che lo farà, ma non nel modo in cui si aspettava lui. In qualunque modo e in qualsiasi momento finisca questa guerra, sarà la fine della Russia così come l’abbiamo conosciuta. Infatti, per una generazione almeno, se non di più, la Russia sarà uno Stato-paria.

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