Dopo i ripetuti attacchi alle ambasciate e agli interessi occidentali. Dopo l’incendio al consolato di Svezia, una delle rare rappresentanze diplomatiche ancora presenti a Bengasi. Dopo il breve rapimento del primo ministro libico, il 10 ottobre, rivendicato da un gruppo di ex ribelli, ieri l’uccisione del capo della polizia militare, il colonnello Ahmed Mustafa Al- Barghathi. Alcuni uomini armati lo hanno ammazzato con due colpi di arma da fuoco alla testa e al petto, davanti alla sua abitazione di Bengasi. Portato in fin di vista all’ospedale, il colonnello è morto poco dopo. «È stato ucciso davanti casa sua a colpi di arma da fuoco sparati da sconosciuti», ha dichiarato il colonnello Abdallah al-Zaidi. Al Barghathi era stato il primo ufficiale dell’esercito nel passato governo di Muhammar Gheddafi a formare un gruppo di combattenti che hanno rivoltato le armi contro di lui, dopo le rivolte scoppiate nel febbraio 2011.
Due anni dopo il linciaggio di Gheddafi, la Libia è sempre più in preda al caos e alle milizie armate che imperversano, soprattutto nell’est. A Bengasi, centro della rivolta e decisiva per il suo esito, si sono moltiplicati attentati e ammazzamenti di giudici, giornalisti, attivisti politici e membri delle forze di sicurezza: attribuiti ai gruppi islamici, legati o meno ad al-Qaeda, ma mai rivendicati. Dopo l’attentato all’ambasciata nordamericana che, l’11 settembre del 2012, è costata la vita all’ambasciatore Usa Chris Stevens, quasi tutti i diplomatici occidentali hanno abbandonato la Libia, e le poche sedi diplomatiche ancora nel paese sono sotto attacco. E dopo il breve sequestro del premier Ali Zeidan compiuto da una milizia di ex ribelli che dipende dal ministero degli Esteri e della Difesa, gli allarmi per un possibile e non lontato golpe si sono fatti più insistenti. Lo stesso premier se n’è fatto interprete. Nella capitale della Cirenaica, in preda all’insicurezza, milizie armate usate per mantenere l’ordine e gruppi islamici che chiedono il conto politico per aver contribuito a eliminare Gheddafi definiscono il quadro della crisi. Dopo il sequestro di Abu Anas, compiuto dalle forze speciali Usa in pieno giorno il 5 ottobre a Tripoli, alcuni gruppi radicali islamici hanno accusato Zeidan e il suo governo di complicità nella reddition.
Il premier, uomo dell’occidente, ha visto progressivamente erosa la sua capacità di mediazione con gli islamisti, che ne avevano consentito l’elezione in cambio della promessa a veder realizzate le proprie aspettative. Pur avendo ufficialmente protestato con gli Usa per il sequestro del presunto membro di al-Qaeda, Abu Anas, ha poi affermato che l’episodio non avrebbe incrinato le buone relazioni con gli Stati uniti. Da lì le proteste delle milizie islamiche e il rapimento. Ora, Abu Anas, dopo esser stato portato su una nave militare Usa di stanza nel Mediterraneo, è comparso a giudizio a New York, si è dichiarato «non colpevole» per gli attentati contro le ambasciate Usa di cui è ritenuto responsabile, ma è stato rimandato in carcere dal giudice Kaplan perché ritenuto pericoloso.
Nel maggio scorso, al-Barghathi, ministro della Difesa, ha annunciato le proprie dimissioni a seguito dell’assedio compiuto da alcuni gruppi armati al ministero della Giustizia e a quello degli Esteri: «Non accetterò che nel nostro nuovo stato la politica venga determinata dalla forza delle armi», ha detto allora. Il suo gesto sembrava però essere dettato soprattutto da una legge sull’esclusione dalla politica degli ex collaboratori e responsabili del passato governo che avrebbe potuto riguardarlo: in quanto comandante delle forze di aviazione all’epoca di Gheddafi. Una legge fortemente voluta dai gruppi armati, che per farla approvare dal Congresso generale nazionale (Cgn) avevano tenuto sotto assedio i due ministeri.