Una barca di legno è qualcosa di solido, rigido, pesante. Ci si chiede – guardandone una a riva – come quel peso possa galleggiare in mare. Nel lavoro dell’artista, però, la stessa barca mostra la sua fragilità. Ci si chiede stavolta come quella materia, che d’improvviso rivela la sua peribilità di matrice organica, possa resistere alle intemperie di tutti i giorni. L’artista infatti la fa attraversare longitudinalmente da ben più pesanti mattoni: il titolo è Muro d’Europa, l’opera è esposta ad Amsterdam, e l’artista è Fabio Mauri. Non è infatti un lavoro del nostro tempo – quando il primo cattivista lo taccerebbe di sensazionalismo ricattatorio – ma del 1979. E allude non ai muri d’acqua di cui si va circondando oggi l’Europa, ma a quello di cemento che allora la divideva passando per Berlino. Un’altra versione Mauri la realizza ad Ancona: stavolta il muro attraversa un’automobile.
Barca e automobile, che assecondano la tendenza dell’essere umano a spostarsi dove meglio gli aggradi, sono spesso presenti anche nel lavoro di Elisabetta Benassi. L’automobile in particolare, per lei legata all’icona di Pier Paolo Pasolini, è una presenza ossessiva. Alla sua ultima personale romana, Letargo, ce n’era una appoggiata al muro esterno della galleria Magazzino con, fissati nel bagagliaio, due gusci di tartaruga di bronzo e gesso (come altre forme, sospese tra organico e inorganico, in ostinata postura d’attesa). Barca e automobile s’incontrano in uno stesso lavoro, all’ingresso del MAXXI di Roma: Mareo Merz è un imponente peschereccio che ha «pescato» l’ultima auto appartenuta a Merz, sospesa nella sua rete. Anche quella di Letargo è «d’autore», di Francesco Clemente: come se all’artista di oggi servissero macchine del tempo, a collegarla alla tradizione cui appartiene.
Perché appunto è la presenza, il peso materiale del passato, il tema che da parte a parte attraversa lei, Benassi. Passato e presente s’intitola un altro lavoro, all’Enciclopedia Italiana due anni fa: il libro omonimo di Antonio Gramsci, fissato al muro da un vecchio chiodo in ferro battuto. Qualcuno evocò il film-testamento cristologico di Ermanno Olmi, Cento chiodi, in cui un professore di religione, in fuga da una cultura asfissiante, inchioda appunto i suoi libri; a me faceva venire in mente, invece, Martin Lutero che «pasolinianamente» affigge a martellate le sue Tesi a Wittenberg. Il senso, comunque, era chiaro: a dispetto della doxa post-ideologica del nostro presente così leggero e «liquido», un passato quanto mai solido riemergerà, prima o poi, per inchiodarci alle nostre responsabilità.
Negli ultimi tempi questa dialettica ha trovato un materiale d’elezione. Nel 2017, alla personale da Maramotti a Reggio Emilia, spiccavano due lavori: Shadow Work è un muro attraversato da parte a parte da una distesa di tappeti orientali, così capovolgendo e attualizzando il Muro di Mauri; Zeitnot è una struttura di cinquemila mattoni, che invita a percorrere le rientranze del suo perimetro frattale. Si ricordava una polemica del 1972: quando la Tate Gallery acquistò un’opera di Carl Andre, e venne accusata di aver dilapidato un mucchio di sterline per un’anodina pila di mattoni. Perché questo in effetti esponeva Andre, e questo torna a esporre Benassi: mattoni. Alla Biennale di Venezia 2013, su un’impressionante distesa di diecimila «mattoni» grezzi, ricavati dai sedimenti dell’alluvione nel Polesine del 1951, erano impressi i codici dei detriti spaziali da decenni orbitanti attorno al nostro pianeta. Ancora una volta passato e presente, anzi passato e futuro: un futuro che è ormai a sua volta passato, però, nella nostra età malinconicamente post-spaziale (che proprio per questo consuma voluttuosa, in questi giorni, i memorabilia epici dell’Apollo 11).
Presente, ora. EMPIRE ha per titolo l’opera di Elisabetta Benassi esposta fino all’1 settembre nel cortile del Museo Nazionale Romano a Palazzo Altemps (mentre dal 14 novembre perverrà alla Crypta Balbi). Su seimila mattoni in terracotta viola-nera, prodotti da una fornace del Gloucestershire, è impresso a tutte maiuscole il titolo dell’opera; due specimina, invece, sono forgiati in bronzo e oro. A differenza di quelli di Venezia, forma e superfici di ciascun elemento sono quelle, regolari e parallelepipede, dei normali mattoni da costruzione; e, a differenza di quelli di Reggio Emilia, sono disposti in quattro ordinate cataste, alte un paio di metri e dalle forme a loro volta geometriche. L’opera va guardata dall’alto della loggia del Palazzo, per apprezzarne il contorno: che pare alludere a caratteri cubitali di un alfabeto tutto da decifrare.
E proprio a un alfabeto fa pensare l’interpretazione «atea, materialista e comunista» che Andre dà al suo minimalismo (in cui la poesia da sempre è affiancata alla scultura). Perché la dialettica fra elementi in sé insignificanti, e le strutture in cui si combinano, è simile a quella fra singoli fonemi, e lettere, e le parole che compongono. Non si può che fare ricorso alla citazione-feticcio degli architetti «materialisti»: nelle Città invisibili di Calvino l’imperatore chiede a Marco Polo di descrivere un ponte, e lui enumera pietra dopo pietra. Kubilai protesta: «perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che mi importa». E Marco risponde, asciutto: «Senza pietre non c’è arco».
Benassi in questo caso si riferisce a un lavoro di Andre del 1986, Manifest Destiny: una colonna di mattoni sui quali è stampigliata appunto la scritta EMPIRE. Il titolo ironizza su un’espressione che, dall’Ottocento a oggi, allude ai compiti «imperiali» degli Stati Uniti. Ma il cortocircuito anglo-romano del lavoro di Benassi (una prima tappa all’Istituto Italiano di Cultura a Londra, poi a Mostyn nel Galles) ci proietta molto più in profondità nel tempo: al Vallo Adriano, limite estremo dell’Impero romano, e poi a quello Britannico che ha preceduto gli attuali «destini» americani. Fra i tesori di Palazzo Altemps impressiona il Sarcofago Grande Ludovisi, del III secolo, a Impero ormai argenteo: una scena di battaglia di incredibile violenza, un brulicare barocco di corpi accatastati. Un muro di barbari sterminati è, letteralmente, il sostegno della potenza di Roma, del suo Arco trionfale. Così arrogante. E così prossimo al suo declino.
Di contro, i singoli mattoni. Due scrittori di oggi li hanno tematizzati in termini, etici e politici, squisitamente «materialisti». Il giovane poeta marchigiano Massimo Gezzi ha intitolato proprio Mattoni il suo manifesto («un solido che vive dentro tre / dimensioni, pesa spaccato col martello / fa tac una volta sola, un suono bello, / di mattone, secco, preciso. // Io con la poesia vorrei fare mattoni»); mentre Francesco Pecoraro, nel recentissimo Stradone, ha eletto nella comunità dei fornaciari di Valle dell’Inferno – che, ignorati per secoli, hanno costruito i milioni di mattoni serviti a edificare, lì a un passo, la grande bellezza Vaticana – il simbolo di una resistenza coriacea ai soprusi del potere, al dilavare del tempo, allo smemorarsi del passato. L’arco; e le pietre. Siamo sempre lì.